MILANO - Per la Procura è la prova regina, per la difesa è soltanto una pistola che spara a salve.
Tanto rumore, nessuna conseguenza: il dna mitocondriale di ”Ignoto 1” trovato sul corpo di Yara non coincide con quello di Massimo Bossetti, quindi l'assassino non è lui, sostiene l'avvocato del muratore di Mapello. Una semplice equazione il cui risultato potrebbe essere la libertà. Stamane, sulla scrivania del gip Ezia Maccora che già una volta ha respinto l'istanza, sarà depositata a richiesta di scarcerazione di Bossetti, in cella dal 16 giugno per l'omicidio della piccola ginnasta di Brembate. «In un Paese civile sarebbe già libero», attacca il suo legale Claudio Salvagni. Solo un anticipo della battaglia che si svolgerà in aula: scaduti i termini per l'immediato, si procederà con rito ordinario davanti ai giudici della Corte d'Assise. Una corte composta da due togati e sei cittadini: ogni sfumatura può rivelarsi determinante davanti a una giuria popolare.
NUCLEARE E MITOCONDRIALE
La difesa è sicura di aver spuntato l'arma principale dell'accusa nei confronti del manovale, 44 anni, una vita su e già per i cantieri della bergamasca, tre figli e una bella moglie, secondogenito illegittimo di Ester Arzuffi. «La Procura dice che sul dna nucleare non ci sono dubbi, ma io ritengo che non possa essere decontestualizzato da quello mitocondriale.
NESSUN CONTATTO
Dna confuso, tracce inesistenti. Se davvero è Bossetti l'uomo che, la sera del 26 novembre 2010, ha caricato Yara sul suo furgone Iveco Daily, l'ha buttata stordita nel campo di stoppie di Chignolo d'Isola e l'ha fatta morire di freddo, perché non ha lasciato nulla dietro di sé? Dei 200 reperti piliferi isolati sul corpo della ragazzina (capelli, peli, fibre), nessuno è riconducibile al muratore. I Ris hanno smontato il suo camion e l'auto e ancora niente: non c'è alcun elemento che porti a Yara. Non solo: in sette mesi di indagini non sono emersi contatti tra la ragazzina e l'uomo. Gli inquirenti si sono accaniti sulla questione, eppure a quanto pare non si conoscevano. Una conclusione investigativa cristallizzata nell'ordinanza con cui il Tribunale di Brescia, a ottobre, ha negato la scarcerazione al manovale. «Massimo Bossetti ha sempre negato di aver conosciuto Yara; nemmeno sono emersi indizi di una frequentazione tra l'indagato e la ragazzina. Si impone quindi la deduzione che il contatto tra i due - comprovato dalle citate tracce biologiche - si sia verificato dopo la scomparsa dell'offesa».
TELECAMERE FATALI
In quel gelido pomeriggio di gennaio, sostiene l'accusa, il muratore non passava casualmente da Brembate. E' questo uno dei punti fermi contro Bosetti che la pm Ruggeri sosterrà in aula. Insieme al cumulo di bugie che il manovale ha raccontato agli inquirenti: «Non frequentavo il centro estetico di Brembate, il giorno della scomparsa di Yara lavoravo, dal paese transitavo solo per tornare a Mapello». E invece gli investigatori hanno accertato che al solarium a 300 metri da casa Gambirasio andava due volta alla settimana, che il 26 novembre non si è presentato in cantiere, che il suo furgone scorazzava per le vie di Brembate. E lo ha fatto anche quel giorno per circa un'ora, fra le 18 e le 18,47, il lasso di tempo che precede la scomparsa di Yara. Alle 18 la telecamera del distributore Shell lo riprende davanti al centro sportivo, alle 18,12 quella di una banca lo fotografa all'incrocio della via in cui abita Yara, alle 18,47 è di nuovo nei pressi del palazzetto dello sport. Un percorso, afferma l'accusa, perfettamente sovrapponibile a quello della ragazzina: alle 18,39 esce dalla palestra, tra le 18,44 e le 18,49 scambia tre messaggi con l'amica Martina, alle 18,55 il suo telefono si spegne per sempre. Ora del rapimento: tra le 18,44 e le 18,55. E alle 18,47 Bossetti è a pochi metri dal centro sportivo.