Trivelle, via agli ultimi appelli tra tensioni e scontri

Trivelle, via agli ultimi appelli tra tensioni e scontri
di FRancesco G.GIOFFREDI
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Domenica 10 Aprile 2016, 07:43 - Ultimo aggiornamento: 14:32
L’ultimo guanto di sfida è stato lanciato da Piero Lacorazza, presidente del Consiglio regionale lucano e tra i coordinatori della battaglia referendaria: «Matteo Renzi scelga la sfida aperta tra il “sì” e il “no” e non tra il “sì” e il “non voto”». È, questo, uno dei punti nevralgici dell’appuntamento di domenica prossima: al referendum contro le piattaforme d’estrazione d’idrocarburi in mare il governo e il Pd renziani caldeggiano l’astensionismo, perché senza quorum il voto non sarà valido. L’ultima settimana di campagna referendaria sarà una guerra di nervi, prima ancora che d’appelli.
Anche perché il referendum trascina con sé un bagaglio di significati ulteriori: la trincea no-triv (capitanata dal governatore pugliese Michele Emiliano) vede nel quesito l’occasione per lanciare messaggi espliciti al governo sulla strategia energetica nazionale, da indirizzare in modo più convinto sulle rinnovabili; ma il voto del 17 aprile è anche terreno fertile per nutrire scontri e spaccature nel Pd, soprattutto in chiave anti-Renzi (e, pure in quest’ottica, Emiliano è protagonista di spicco).
 
Il quesito superstite (gli altri cinque sono stati bocciati dalla Consulta, perché nel frattempo assorbiti e soddisfatti dalla Legge di stabilità) presentato da nove Consigli regionali (tra cui quello pugliese) sembrerebbe comunque piuttosto circoscritto: riguarda esclusivamente la durata dell’estrazione di idrocarburi (petrolio e gas) già in atto entro le 12 miglia dalla costa, e non sfiora né le attività petrolifere su terra ferma, né quelle in mare oltre il confine delle 12 miglia. In particolare, votando “sì” si chiede che alla scadenza delle relative concessioni non ci sia alcuna proroga automatica, mentre l’attuale impianto normativo consente di estrarre fino ad esaurimento del giacimento.

Le piattaforme coinvolte dal referendum sono in tutto 47, cinque delle quali nella lingua di mar Jonio a cavallo tra Calabria e Puglia. In caso di vittoria del sì, lo smantellamento delle piattaforme si concretizzerebbe tra i cinque e i dieci anni. Secondo il comitato no-triv ne beneficerebbe complessivamente l’ambiente marino italiano, scongiurando del tutto il rischio di incidenti, e la vittoria del “sì” sarebbe un propellente fondamentale a una nuova stagione di valorizzazione delle rinnovabili, senza trascurare il rinvigorito protagonismo dei territori nel dibattito politico-economico nazionale che ne scaturirebbe. Il governo, e tutta la filiera unita dal mastice dell’astensionismo e del “no”, contesta però più punti: non sono in ballo nuove trivellazioni («già accantonate con la retromarcia dell’esecutivo nella Legge di stabilità», spiegano), e con lo stop prematuro alle concessioni si abbandonerebbero nel sottosuolo «grandi quantità di idrocarburi, soprattutto gas, non sfruttate»; sullo sfondo ci sarebbero poi la partita occupazionale (soprattutto nell’area di Ravenna) e persino l’aspetto ambientale (secondo chi ostacola il referendum, il calo di estrazioni dovrebbe essere compensato dal maggior transito di petroliere nei nostri porti).

È un botta-e-risposta anche in punta di diritto. Innanzitutto, com’è confusamente successo anche nell’ultima infuocata direzione nazionale Pd, si discetta sulla reviviscenza della legge 9 del 1991: secondo Emiliano col successo del “sì” permetterebbe di procedere a proroga di concessioni, ma con un robusto potere negoziale delle Regioni; secondo il governo la legge è ormai cancellata dalla successiva “stratificazione” normativa, e quindi niente proroghe e addio giacimenti e posti di lavoro per sempre. È su questa pietra d’inciampo che Emiliano da una parte e Renzi-De Vincenti dall’altra hanno reciprocamente minacciato «lezioni di diritto» in Direzione Pd. Le Regioni “referendarie” hanno poi impugnato due dei cinque quesiti bocciati per “conflitto di attribuzione”: in sostanza, non risulterebbero realmente assorbiti dalla Legge di stabilità. I quesiti riguardano la durata dei permessi e delle concessioni, e il “piano delle aree” (lo strumento di pianificazione delle autorizzazioni).

«Il piano - spiegano dal fronte referendario - avrebbe dovuto stabilire dove fosse possibile (e dove no) cercare ed estrarre. Lo “Sblocca Italia” prevedeva, tuttavia, che il piano dovesse essere elaborato dal ministero dello Sviluppo economico con la partecipazione “fittizia” degli enti locali e delle regioni e che, in attesa dell’elaborazione del piano, fosse possibile rilasciare permessi e concessioni. La proposta referendaria mirava invece a cancellare la partecipazione fittizia delle Regioni e degli enti locali, e a vietare il rilascio di nuovi permessi e di nuove concessioni fino a quando non fosse stato adottato il piano. Ma la Legge di stabilità ha soppresso la norma che prevedeva il piano e, in questo modo, è caduto anche il quesito referendario».
Tra le forze politiche, di fatto solo il Pd è ufficialmente orientato all’astensionismo: tutti gli altri partiti spingono per il sì, chi più e chi meno, o sponsorizzano la libertà di scelta. E chissà che non ci sia anche una dose di lucida strategia politica.
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