Prodi: «Avere una visione e marciare uniti. Solo così il Sud ce la farà»

Romano Prodi
Romano Prodi
di Rosario TORNESELLO
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Sabato 21 Settembre 2019, 18:32
Appuntamento quasi proibitivo: ore 14 di una calda domenica di fine estate. Se è un modo per testare la serietà del giornalista, oltre i tempi molli del Meridione, la prova è superata con dieci minuti d’anticipo. Deve essere l’orario ideale per parlare di Mezzogiorno con sufficiente distacco. Economista e tante altre cose insieme, già presidente del Consiglio dei ministri e della Commissione europea, Romano Prodi è stato il primo a varare da Palazzo Chigi due differenti piani strategici per il Sud, nel 1998 da sessantamila miliardi di lire e nel 2007 da cento miliardi di euro. Il professore risponde dalla sua abitazione, nel centro di Bologna.
«Pronto…».
Presidente, come sta?
«Troppo bene».
Ottimo. E il sud, invece?
«Male. E si distacca sempre più da un Nord che pure va piano. Le famiglie cercano un futuro migliore altrove e mandano i figli a studiare fuori per un lavoro garantito. È naturale che un pezzo di Paese da cui si scappa sia in grande difficoltà».
Il premier Giuseppe Conte rilancia l’idea di un Sud al centro dell’Italia e dell’Europa.
«Spero che sia così, ma oggi debbo limitarmi a dire come stanno le cose. A Sud del nostro Mezzogiorno non c’è niente e i rapporti col niente sono niente. O si afferrano al volo le occasioni che offre la storia, come ho cercato di fare dieci anni fa, o si resta fermi».
A cosa si riferisce?
«A Taranto, ad esempio: ho firmato con due grandi compagnie orientali accordi strategici per la rinascita del porto jonico. Si trattava solo di adeguare i fondali. Dopo sei anni di dispute locali non se n’è fatto nulla. Ho ricevuto due lettere dalle società interessate, una di Taiwan e l’altra cinese: “Presidente, noi ce ne andiamo”. Non ero più al governo, ma ho avvertito per intero il senso della sconfitta. Il problema non è solo nella politica nazionale ma molto, anche, in quella locale. Tuttavia si può voltare pagina».
Come?
«Mettendo il Sud al centro di un Mediterraneo attivo e vitale. Questione di prospettive: non solo intensificare i rapporti politici e commerciali. Si potrebbe ad esempio riprendere una vecchia proposta che feci senza successo in Commissione europea. Creare università miste fra Nord e Sud. Per dire: un’università con una sede a Bari e una a Tunisi, un’altra con una sede a Napoli e una Tripoli e così via. Con studenti e professori metà del nord e metà del Sud e corsi di studio due anni al nord e due al sud. È un piccolo esempio concreto per agganciare il nostro Mezzogiorno alle altre regioni del Mediterraneo. Certo, la guerra in Libia ha determinato un patatrac dai riflessi gravi e drammatici. È difficile attivare dinamiche di sviluppo quando dall’altra parte non c’è nulla. Ma il problema di fondo è che manca un’idea».
Il governatore Emiliano ripete che, senza Ilva, Taranto avrebbe avuto destino migliore.
«Tutti sanno che l’Ilva ha lanciato Taranto. Sia chiaro: il primato deve andare alla salute, da questo non si prescinde. So di essere impopolare, ma voglio essere franco: ricordo qual era la distanza tra la città e la fabbrica, all’inizio. Non è stata l’Ilva ad assalire Taranto, ma il contrario. Adesso bisogna dare attuazione a tutte le decisioni prese per salvaguardare la salute, a partire dalla copertura dei depositi. Gli interventi progettati non hanno pari al mondo. Bisogna attuarli per proteggere la salute e il futuro di Taranto».
I Giochi del Mediterraneo 2026 possono essere un punto di svolta per il capoluogo jonico?
«I Giochi sono una bella occasione, ma sempre giochi restano, un fatto temporaneo. Bisogna accompagnare il progetto dei giochi con prospettive future. Taranto ha bisogno di interventi che durino nel tempo. Se i giochi possono esserne l’innesco, evviva i giochi!».
Tra gli affanni del territorio, il flagello della xylella. Non glielo chiedo in quanto fondatore dell’Ulivo, facile ironia, ma come ospite della Puglia: giusta la condanna dell’Europa per i mancati interventi?
«Poteva non farlo? Di fronte a una tale tragedia si debbono attuare tutte le misure necessarie per contrastare la diffusione del batterio. Non lo si è fatto! Ora quanto tempo ci vorrà per rimediare? E quanta bellezza è andata distrutta?».
Ancora una volta un problema di classi dirigenti e assunzione di responsabilità.
«Sì. Più in generale, credo che il tema di fondo sia questo: il Sud vuole la modernità o non la vuole? Lo ripeto fino alla nausea: priorità alla salute. Ma non vedo incompatibilità».
Modernità è anche il gasdotto Tap?
«Certo. Il Mezzogiorno aveva accolto con entusiasmo l’idea di ospitare il second hub europeo dell’energia: uno al nord, in Germania, e uno al sud, nel Mezzogiorno. In Germania stanno realizzando il Nord Stream 2 con dimensioni e mezzi spaventosi, qui al contrario abbiamo lanciato il progetto e poi lo abbiamo ostacolato. Dov’è il rispetto degli impegni? È una questione di credibilità: naturale che gli investitori vadano altrove».
La perifericità è condizione su cui è difficile incidere.
«Non dimentichi il Mediterraneo. È il centro del nostro ragionamento. Se lì c’è il vuoto il Mezzogiorno sarà sempre periferico. La sconfitta di Taranto e del porto di Gioia Tauro sono le cose più dolorose che io ricordi. Il Mezzogiorno deve vincere qualche gara, deve far capire che investire lì è bello e conveniente se si trova un ambiente che aiuta. Non voglio più sentire stranieri propensi a scartare il Sud anche per problemi di criminalità e di evasione fiscale: non vanno dimenticati, sono un problema nazionale, ma al Sud si manifestano con maggiore intensità».
Quanto peserà non aver agganciato la Via della Seta?
«Un’altra sconfitta. Il Pireo invece che la Puglia, Atene al posto di Taranto. Quello che è fatto è fatto: pensiamo al futuro».
In compenso avremo le Zes.
«Le Zone economiche speciali le ho sempre volute, ma se la gente ha paura del Sud che zona speciale è? La Zes è una calamita. Se, per effetto del contorno, perde la sua capacità magnetica non attrae nessuno. E lì abbiamo bisogno anche di risorse ed energie dall’esterno».
Pessimista?
«È un quadro realistico: se si mettono in atto le condizioni rappresentate, ripresa e cambiamento avvengono subito. Paesaggio, clima, gente: sono tutti fattori naturalmente attrattivi, ma devono essere organizzati. Ogni laureato specializzato che va all’estero si porta via un investimento, tra spesa pubblica e spesa privata delle famiglie, di almeno 300mila euro. È un regalo che facciamo alla Gran Bretagna e alla Germania. Il fatto che poi in genere faccia anche un’ottima carriera, dimostra come non sia un problema di persone ma di organizzazione della società. Bisogna riempire il Sud di occasioni».
Su cosa puntare?
«Agricoltura e turismo sono due pilastri, ma non bastano. Devono essere al passo con i tempi. La modernità è organizzazione».
E pure infrastrutturazione…
«È evidente. Servono opere che leghino il Nord al Sud. Però attenzione: il rinnovamento dell’autostrada Salerno-Reggio non ha rinnovato la Calabria. Le infrastrutture sono assolutamente necessarie ma non sufficienti. Giusta, doverosa e utile l’alta velocità tra Napoli e Bari, ma non pensiamo che basti questa a salvare la Puglia».
Cos’altro?
«Una visione strategica, ampia e moderna. Ma anche un’unità di azione. Nessuno mai si è sviluppato solo con il pur necessario intervento di altri. Le risorse nazionali vanno utilizzate al meglio. Bene che sia stata ripresa l’idea del Presidente Ciampi per un’alta quota di investimenti pubblici al Sud, ma non pensiamo che questo sia sufficiente per una rinascita. Occorre un coordinamento della decisione politica. E invece qui si è divisi su tutto: porto di Taranto, xylella, Ilva, Tap…».
Partita difficile in ottica di autonomie differenziate.
«Vero. Le scelte di fondo sul regionalismo debbono coinvolgere tutto il Paese, non solo una parte. L’autonomia della Lombardia o dell’Emilia non può limitarsi a un dialogo fra la regione e lo Stato: è un problema di tutto il Paese e deve essere discussa da tutto il Paese. Amo il Sud e sono convinto che possa fare dei balzi in avanti. Ma deve imparare a utilizzare rapidamente e bene, con progetti condivisi, le risorse a disposizione. Un esempio è Matera».
Emblematico che la capitale europea della Cultura non abbia una rete ferroviaria adeguata, non trova?
«Sì, è vero. Ma quando c’è una città unita intorno a un’idea forte, tutto può funzionare. E Matera è ormai lanciata».
Lei è spesso ospite della Fondazione Don Tonino Bello, ad Alessano. Cosa resta della sua idea, sua del vescovo, di un Sud porto di pace?
«La vocazione espressa da don Tonino è la precondizione per quello che le ho detto: vuol dire andare d’accordo; parla di una società coesa, che si vuol bene, che dia concretezza alle speranze. Pace significa non solo mettere al bando armi e guerre, ma anche creare una comunità di intenti su grandi temi».
L’immigrazione, ad esempio. Un porto di pace è luogo di accoglienza…
«Se ne è discusso molto. L’immigrazione è problema europeo, tutti gli Stati devono affrontarlo allo stesso modo. Ormai, finalmente, ci si sta orientando verso una modifica del Trattato di Dublino, che fin qui ha scaricato tutti i problemi solo sul Paese d’approdo. Un obiettivo che l’Italia deve perseguire, puntando i piedi e battendo i pugni. Non è nel mio stile, ma non c’è altra via».
Per gli immigrati, questa è terra di passaggio. A preoccupare, semmai, è l’emigrazione giovanile. Cosa immagina per il Meridione?
«Le prospettive, se cambia il modello decisionale, sono grandiose. Le dico questo: i ragazzi meridionali che vanno via sono i primi della classe. Punto. E allora: perché sono i primi quando emigrano e sono paralizzati quando rimangono? Faccio un esempio: non c’è posto più bello della provincia di Lecce. Arte, paesaggio, cultura e anche un’università molto interessante. Come si fa a dire che non c’è gioventù potenzialmente capace di portare Lecce ai massimi livelli? C’è, evidentemente. Lì sono nati scienziati, progetti, idee. Il problema è incastonare tutto questo fermento in una società più coesa».
Cosa resta, a lei, del Sud?
«È cultura profonda. È il nostro mondo. Ha più radici culturali italiane il Meridione che il Nord. Ma un riassestamento con il Mediterraneo è necessario. Un secolo fa c’erano centinaia di migliaia tra pugliesi, campani e siciliani che vivevano a sud del sud, sulle altre sponde del mare. Alessandria d’Egitto era per metà italiana. Adesso non c’è più niente. Per questo occorre ricostruire ponti, legami, rapporti, amicizie. La Puglia, tra le regioni del Mediterraneo, è relativamente all’avanguardia. Può giocare un ruolo decisivo».


 
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