Pensioni, Ape sociale e opzione donna prorogate un altro anno: ecco chi potrà “lasciare” a 58 anni e con 35 di contributi

Pensioni, Ape sociale e opzione donna prorogate un altro anno: ecco chi potrà lasciare a 58 anni e con 35 di contributi
Pensioni, Ape sociale e opzione donna prorogate un altro anno: ecco chi potrà “lasciare” a 58 anni e con 35 di contributi
di Michele Di Branco
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Martedì 15 Settembre 2020, 21:40 - Ultimo aggiornamento: 17 Settembre, 00:06

Ape Sociale e Opzione Donna, arriva la proroga. La partita governo-sindacati sulla riforma del sistema previdenziale parte oggi con due palle già virtualmente in buca. L’esecutivo, che pure ancora non conosce l’esatta entità della copertura finanziaria necessaria per portare avanti i molti dossier sul tavolo, ha già deciso che si va avanti ancora per un anno con due strumenti in scadenza a fine 2020. Dunque conferma nel 2021 per l’Ape Sociale che consente a talune categorie di lavoratori (disoccupati, caregiver, invalidi al 74%, addetti a mansioni gravose) di andare in pensione 63 anni, con 30 o 36 anni di contributi, e nuovo disco verde anche per Opzione Donna: un meccanismo di pensione anticipata riservata alle lavoratrici che entro il 31 dicembre 2019 abbiano maturato 35 anni di contributi e un’età anagrafica pari o superiore a 58 anni (per le lavoratrici dipendenti) e a 59 anni (per le lavoratrici autonome).

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Per l’Ape Sociale, tra l’altro, si sta ipotizzando un potenziamento dell’operazione al fine di includere tra i beneficiari alcune categorie al momento tagliate fuori.

 

I TEMI

Questa esigenza sta molto a cuore ai sindacati. «Negli incontri precedenti – spiega Domenico Proietti, segretario confederale Uil, – abbiamo illustrato al governo tutte le nostre proposte, tra cui la proroga dell’ampiamento della platea delle categorie dell’Ape sociale, la proroga di Opzione Donna, il completamento della salvaguardia degli esodati, il rafforzamento della quattordicesima e la promozione delle adesioni ai fondi pensione». Altro tema caro ai sindacati quello del sostegno ai giovani con la creazione di una pensione di garanzia in grado di contrastare salari bassi, carriere discontinue e disoccupazione: un mix di elementi che, proiettati negli anni a venire, renderanno le pensioni sempre più misere. Secondo i dati del Censis, fra 30 anni, saranno 5,7 milioni coloro che potrebbero trovarsi sotto la soglia di povertà e per evitarlo si sta cercando di costruire una misura in grado di garantire assegni dignitosi anche a chi ha buchi contributivi derivanti da carriere discontinue.
 

GLI OBIETTIVI

L’obiettivo della pensione di garanzia giovani è quello di garantire anche a chi è entrato nel mondo del lavoro dopo il 1996 (quando è stato introdotto il sistema contributivo per tutti) un assegno previdenziale che non sia calcolato soltanto sui contributi effettivamente versati ma anche su una contribuzione figurativa per i periodi discontinui e di formazione, oltre ai periodi di disoccupazione involontaria. La misura scatterebbe nel 2040 e, a grandi linee, si tratterebbe di una integrazione tale da portare la soglia minima di partenza dell’assegno previdenziale oltre la soglia di povertà di 780 euro. Tra i temi sul tappeto in discussione da oggi (oltre a quello centrale del superamento di Quota 100, la cui fase sperimentale terminerà il prossimo anno), c’è la rivalutazione delle pensioni.
 

I TEMPI

Da aprile, dopo ben 8 anni di attesa, una platea di 2,8 milioni di pensionati si è visto riconoscere l’aumento pieno dell’assegno sulla base dell’andamento dell’inflazione: un mini-incremento della rivalutazione per i redditi da pensione tra i 1.522 e i 2.029 euro lordi al mese (tra le tre e le quattro volte il trattamento minimo). Dal 2022 la rivalutazione sarà del 90% per gli assegni tra 2.029 e 2.538 euro al mese e del 75% per tutti gli assegni oltre i 2.538 euro. Insomma il governo, almeno per i pensionati a basso reddito, ha tolto il freno a mano alla macchina dell’indicizzazione all’inflazione ma la marcia, lamentano i sindacati che dunque chiedono a Palazzo Chigi di intervenire, sarà lentissima e non basta a risarcire i soldi perduti a partire dal 2011, quando l’esecutivo Monti mise a dieta i pensionati.

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