Di padre in figlio/ Fitto: «Papà, tutta la mia vita racchiusa in un istante»

Di padre in figlio/ Fitto: «Papà, tutta la mia vita racchiusa in un istante»
di Rosario TORNESELLO
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Domenica 28 Ottobre 2018, 20:06 - Ultimo aggiornamento: 20:36

C'è un momento – succede, a volte – in cui la storia si compie e si compie per sempre. Un attimo, uno solo, in cui davvero tutto avviene. E lì, indissolubilmente, passato e futuro si tengono assieme. È la frazione di secondo in cui si condensano i destini, si sconvolgono le esistenze, si cambiano le biografie. Lo squarcio di un tempo infinito ridotto a istante e consegnato alla morte. La vita ritorna sempre, ma sotto altra forma. La sera del 29 agosto 1988, trent’anni fa, al rientro nel Salento da Taranto, tra Francavilla e Latiano la Lancia Thema del presidente della Regione Puglia Salvatore Fitto, guidata dall’autista Lorenzo Capodiferro, si schiantò contro un autotreno che la precedeva a luci spente. Fitto, 47 anni, democristiano, ritornava a Maglie dopo la commemorazione dell’onorevole Nico Monfredi, morto tre anni prima in un incidente stradale, figlio del capogruppo Dc in consiglio regionale, Angelo. A casa, per cena, lo aspettavano la moglie e i tre figli. Erano le 20,45. Non doveva andarci, era febbricitante. Ci andò lo stesso. Bastò un attimo. Uno solo.
 

 

«Papà era questo. Ed è stato così fino all'ultimo». Raffaele aveva 19 anni, compiuti il giorno prima. Il 31 agosto, invece, la madre Leda Dragonetti ne avrebbe festeggiati 44 (i genitori si erano sposati giovanissimi, lei splendida ventiduenne). Fu quello il giorno dei funerali, invece. Una folla immensa davanti al Municipio, cinque ministri in prima fila, la Puglia in lutto. Raffaele era il secondogenito, dopo Felice, più grande di due anni, e prima di Carmela, più piccola di due. Salì lui, alla fine, sull'altare. Prese il microfono e ringraziò tutti. Un gesto inatteso, spontaneo. Fino a un'ora fa eravamo distrutti. Però quando siamo usciti da casa e abbiamo visto tanta gente, ci siamo subito ripresi. Ci avete dato forza: papà continuerà a vivere nei nostri e nei vostri cuori. Un impegno. Parlare del padre non è semplice. Non lo ha mai fatto. Lo fa ora. La vita ritorna, sempre.

«La mia è cambiata quel giorno». Raffaele, oggi 49 anni, molte cose assieme e tutte in poco tempo consigliere comunale, regionale, governatore, parlamentare, ministro, leader politico e adesso per la seconda volta eurodeputato è seduto dietro la scrivania, nella sua segreteria, nel suo paese. In alto, dietro di lui, l'icona di San Nicola, patrono (anche) di Maglie. Accanto, il diploma di laurea in Giurisprudenza, a Bari. Maglioncino grigio, camicia bianca. Non si schioda da lì. Non è alterigia, è posizione di difesa. Due ore di chiacchierata scioglieranno la diffidenza, aprendo alle emozioni. Si lavora di cesello per dare rilievo alle persone nel gioco incrociato di luci e ombre, vittorie e sconfitte. Qui c'è un uomo che parla di un altro uomo. Suo padre. Solo questo, nient'altro. Raffaele è appena rientrato da Strasburgo. Una settimana lì, tre a Bruxelles e il weekend a casa. «Ne ho bisogno come l'aria». Casa, poi, è un concetto relativo. I contatti col territorio sono fondamentali (uno degli insegnamenti del padre). I rapporti con la gente (un altro). Sicché l'agenda è piena di appuntamenti, inclusa una capatina in Basilicata. Ma domenica, oggi, si sta tutti assieme. Si va a Ortelle, Fiera di San Vito. Lui, la moglie Adriana e i tre figli, Anna, Gabriele e Salvatore, il primogenito. Lo chiamano tutti Totò, come il nonno. La vita, appunto, ritorna.

«Papà era estroverso. Io introverso, lo so. Lui aperto, sorridente, solare. Io riservato, talvolta spigoloso, diciamo meglio diretto, ecco: è la parola giusta. Non parlo alle spalle, non tramo nell'ombra. Ho un carattere più simile a quello di mia madre. Felice e Carmela, i miei fratelli, hanno preso invece da lui: la sua allegria, la sua giovialità». Venerdì scorso a Maglie, nel museo civico, la commemorazione per i 30 anni dalla morte. Era il rampollo di un'importante famiglia di imprenditori, Totò Fitto: la laurea in Economia e commercio, la politica e a 27 anni (pieno 68) l'elezione a sindaco di Maglie. Allora la Dc aveva un riferimento certo in un altro magliese doc, Giorgio De Giuseppe. Un predestinato, insomma. «La gente si ricorda di lui, mi riconsegna memorie e aneddoti. Nel tempo il dolore è stato compensato da questo affetto di ritorno. Per chi ha fede come me, è il senso di una presenza che va oltre la mancanza. È come se papà fosse qui. Sempre disponibile, trasmetteva un'idea di competenza oggi assente. La concretezza unita alla progettualità. Era il sorriso con cui affrontare grandi e piccoli problemi. Risolviamo tutto, diceva. Noi figli siamo cresciuti in questo clima. Ricordo la festa per la sua prima elezione al consiglio regionale, avevo sei anni. Poi, già ragazzi, lo abbiamo seguito nelle campagne elettorali. Quante scazzottate, io e Felice, con gli avversari di turno. Per le elezioni regionali dell'85, ad esempio: a Melpignano memorabili quelle con Sergio Blasi e a Lecce, poi, risolte in un paio di occasioni dall'intervento provvidenziale di Mario De Cristofaro. C'era passione. E, sembrerà strano, anche rispetto, frutto di un'educazione e di una formazione differenti. Ero con papà due giorni prima di quella terribile sera: tornavamo dalla Festa dell'Amicizia a Ostuni. Quante risate in auto».

Trent'anni. Sembrano un'eternità. Raffaele conserva la faccia da ragazzo. Il prossimo agosto ne farà 50. Ha attraversato prima, seconda e terza Repubblica, se vogliamo chiamarla così, aggiunge. «I tempi bruciano i contenuti. Coerenza e competenza sono optional». Dice di leggere un libro a settimana. E tira fuori l'ultimo di Antonio Polito, Prove tecniche di resurrezione. Deve suonare come un auspicio: dal 2011 non ricopre incarichi di rilievo, alle ultime politiche una débâcle. Il tempo passa. «I comizi sono in disuso, erano una prova di rispetto per se stessi e per gli altri. Bisognava sapere, prima ancora di saper dire. Altro insegnamento di mio padre. Oggi, al contrario, basta un tweet. La gente non ricorda. Poi però vai al governo e hai evidenti difficoltà». Per dire: l'Ue, il reddito di cittadinanza, le manovre finanziarie... «Anche io sono convinto che l'Europa abbia sbagliato, sul piano sociale e su quello economico. Ma se decidi di sforare col deficit lo fai per gli investimenti, non per l'assistenzialismo». Bagliori di campagna elettorale. Il prossimo anno si vota per l'europarlamento. Lui è già al lavoro per una formazione di centrodestra. Si dialoga con Giorgia Meloni, Giovanni Toti, Nello Musumeci. Si vedrà. L'intesa deve essere sui contenuti. «Da quelli non si prescinde. Qualcuno mi incalza: sparala grossa ogni tanto, serve ad attirare attenzione e consensi. Non fa per me. Ho bisogno di seguire un'idea, non di perseguire calcoli elettoralistici. Il cambio di paradigma mi era già chiaro nel 2005, alla fine del mio mandato come presidente della Regione: avevamo raddrizzato il bilancio, rivoluzionato la sanità, realizzato molte altre cose. Scelte impopolari. Mi sarei potuto limitare a gestire il potere e sarei stato rieletto a occhi chiusi. Ma a me piace mettere una visione nelle cose, giusta o sbagliata. Ci trovammo di fronte una campagna elettorale piena di slogan. Perdemmo. Peccato, la Puglia poteva cambiare sul serio».

Era un ragazzo, ora è un politico. Il punto di svolta quella sera, a quell'ora, in quell'istante. Un solo attimo. «La tragedia ti cambia la vita. Sono passato dalla spensieratezza alla cupezza. Un'altra persona, completamente». Da quel momento è cambiato tutto. Ma prima, fino a quel giorno, chi era - esattamente - Raffaele Fitto? «Quasi uno scapestrato», sorride. «Con Felice siamo cresciuti in strada. Ragazze. Discoteche. Moto». Su una ruota, precisa e spiega: Sì e Ciao le sue propaggini naturali. Incidenti? «Tanti. Il più grave vicino al Bar 2001, qui in centro. Ero seduto dietro, fui sbalzato in avanti. Mi portarono in ospedale, a Lecce, avevo perso conoscenza». Lavate di testa? «Mio padre ci avrà sgridato due o tre volte rispetto alle mille che avremmo meritato. Ma quando si arrabbiava un po' recitava. A mantenere il punto era la mamma, fondamentale considerate le assenze di papà». Anche il calcio ne ha segnato il fisico: centrocampista («di rottura», spiega ripensando alle proprie e altrui gambe). Col Maglie è arrivato in quarta serie, non oltre. Ma non era per gli infortuni in campo che poi, a scuola, zoppicava: rimandato più volte, matematica, latino, chimica, fisica, non proprio un dettaglio per chi come lui frequentava lo Scientifico. «Quando pochi anni dopo fui nominato assessore regionale al Bilancio, al mio prof di matematica, Antonio Ottini, quasi venne un colpo. Mi chiamò al telefono: Non è possibile! Come hai fatto?». In compenso era rappresentante d'istituto, al da Vinci di Maglie. Che poi voleva dire liste contrapposte, campagna elettorale, elezioni. Prove generali, insomma.

«Decisi di raccogliere il testimone politico di mio padre e lo dissi quasi senza rendermene conto il giorno del funerale, tanta la rabbia. Poi ne parlammo a casa, fu discusso tutto in famiglia. Anche in questo mia madre è stata un punto di equilibrio straordinario. Per me e per i miei fratelli». Nel maggio 1990 l'elezione in Consiglio regionale. Accanto, nei primi passi, riferimenti imprescindibili. Ne cita due per tutti: «L'onorevole Giacinto Urso, persona con cui anche oggi, a 93 anni, è utile scambiare opinioni, presente con schiettezza in tutte le tappe della mia carriera . E Antonio Perrone, il segretario di mio padre . Ricordando loro penso a tutti quelli che mi sono stati vicini, anche nelle sconfitte. Ché nelle vittorie è facile: tutti ti sono accanto». Delusioni? «Potevo cedere alle lusinghe e diventare presidente della Puglia già nel 1998, nella stagione dei ribaltoni, all'epoca del governo D'Alema. Così come più tardi, nella fase del Patto del Nazareno e anche dopo, sarei potuto tornare a fare il ministro. Ma per coerenza ho detto no. Ho espresso sempre la mia opinione, fedele a una posizione di centrodestra, anche nella fase acuta della rottura con Silvio Berlusconi, contestato lealmente e direttamente. Possono cambiare le sigle di partito, non la mia collocazione. Allo stesso modo pretendo franchezza e correttezza da chi mi sta accanto. Tengo nella massima considerazione chi mi indica gli errori, chi mi critica frontalmente. Molti, pure beneficiati ai massimi livelli, mi hanno deluso tramando alle spalle o anche solo tacendo. Ma la colpa è mia: ho sbagliato a fidarmi delle persone sbagliate». Nomi nessuno. Non è il luogo. Forse non è il momento.

Oggi si va a Ortelle. Tutti assieme. Con la moglie, Adriana Panzera («donna straordinaria. Mi rimprovera spesso perché non gioisco mai abbastanza dei risultati, preoccupato come sono delle responsabilità. Ai miei bambini auguro di trovare persone come lei»). E con i tre figli («spero per loro un percorso diverso: che ognuno possa seguire la propria strada, senza scossoni, senza accelerazioni, vivendo pienamente»). La tragedia ti cambia. Ma la vita ritorna, sempre. Come il ricordo del padre. «Ci penso spesso». Anche un attimo basta. Uno solo. L'eternità ha bisogno di poco.


 

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