Messina Denaro, le stragi e noi/ Cosa resta della notte

Matteo Messina Denaro subito dopo l'arresto
Matteo Messina Denaro subito dopo l'arresto
di Rosario TORNESELLO
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Martedì 17 Gennaio 2023, 12:00 - Ultimo aggiornamento: 13:02

Doveva essere il lunedì più triste dell'anno, il blue monday. E questo per vari motivi: il giorno della settimana, la distanza dalle prossime vacanze, l'addebito delle spese fatte a Natale, l'arrivo del maltempo, i buoni propositi infranti dalla quotidianità, gli stravizi delle feste che presentano il conto, il picco dell'influenza. Ognuno ne avrebbe aggiunti di propri. Invece passerà alla storia, per l'arresto di Matteo Messina Denaro, come uno dei giorni più importanti degli ultimi trent'anni, in singolare coincidenza con l'anniversario della cattura di un altro assoluto protagonista della sciagurata stagione del terrore e dello stragismo di mafia, Totò Riina, acciuffato il 15 gennaio del 1993, ancora a Palermo, ché le latitanze importanti sono sempre dietro casa, vuoi i costi e vuoi - soprattutto - la rete di protezione a vari livelli (tema per l'immediato futuro).

Sembra passata un'eternità da Capaci e via D'Amelio, ma la portata di quegli eventi (e del dolore) cristallizza i fatti in un eterno presente per una ferita, una lacerazione nel Paese, che fatica a rimarginarsi. Non potrebbe. Né ancora, del resto, dovrebbe: le tragedie, i misteri irrisolti, le ombre persistenti. Un intrico di fatti e circostanze con cui dover necessariamente fare i conti prima di poter dire che il peggio è, appunto, passato.

Con l'arresto di Messina Denaro si chiude una stagione di orrori, e questo è indubbio, ma non si volterà pagina finché non si darà soluzione, per un verso, e concretezza, per l'altro, a un paio di questioni tuttora aperte e pendenti, niente affatto secondarie. Anzi. La giustizia ha questo, come primo postulato: la verità. Sapere è il principale obiettivo, la prioritaria forma di risarcimento per le vittime e per la collettività; il passo iniziale. Seguono tutti gli altri, incluse pene e sanzioni accessorie. Ma sapere è necessario. Ed è la prima questione: sappiamo tutto di quegli anni?

L'Italia si porta appresso molti misteri. Essere stata a lungo zona di confine tra due mondi, l'Occidente e l'Oriente, tra il blocco americano e quello sovietico, ha prodotto la convergenza di interessi e di apparati che per troppo tempo hanno inquinato gli assetti democratici con una guerra strisciante sulla linea di demarcazione fatta di condizionamenti e influenze, nel migliore dei casi, ma anche di azioni di inaudita violenza, nel peggiore. In un modo o nell'altro, di rapporti oscuri e trame indicibili. Gli anni dell'attacco mafioso al cuore dello Stato hanno rappresentato la deflagrazione finale dopo la sanguinosa stagione del terrorismo tanto rosso quanto nero - servizi deviati inclusi - nella lunga notte vissuta dall'Italia nel secondo dopoguerra.

Nel 1992, l'anno di Capaci e via D'Amelio, la prima Repubblica crollava anche sotto i colpi dell'operazione Mani pulite, scatenata sul malaffare - in molti casi vero, in tanti altri solo presunto - di un sistema comunque giunto al collasso. Senza indulgere in complottismi e dietrologie, poco utili quando non dannosi e deleteri, una domanda attraversa gli anni: quanto resta da sapere perché giustizia sia fatta, pienamente e compiutamente? Quanto e cosa manca alla verità?

E poi l'altra questione, che chiama in causa la prima: l'arresto dell'ultimo boss, il superlatitante, a quale punto arriva nella partita contro la criminalità organizzata? Siamo alla fine del match, ai minuti di recupero, alle ultime battute prima dell'intervallo? Quali e quanti coinvolgimenti e implicazioni reciproche restano in piedi tra la città del giorno e quella della notte, tra la luce e il buio profondo, tra il rispetto delle regole e la loro sistematica violazione? Insomma: quanto è vasta e diffusa l'area delle complicità a tutti i livelli, delle cointeressenze, delle convenienze grandi e piccole (incluso l'acquisto della nostra infima dose quotidiana di felicità), per poterci dire al riparo dalle responsabilità? Non si tratta di chiamare in causa l'eterno conflitto tra bene e male, quanto - piuttosto - di fare i conti con una realtà fastidiosa e urticante, di certo ambigua, asseritamente innocua nelle premesse ma oltremodo nefasta nelle conseguenze, la stessa in cui sono maturati e si sono prodotti disastri di varia portata, inclusa la copertura a una latitanza durata trent'anni. E per fortuna finita ieri, nel lunedì che doveva essere triste e per fortuna non lo è stato.

Non esistono «invincibili» e «imprendibili», ha commentato Nando Dalla Chiesa, sociologo e docente universitario, figlio del nostro generale, com'è intitolata la serie tv dedicata in questi giorni proprio all'alto ufficiale trucidato dalla mafia. Non esistono, proprio no. Possono passare anni e decenni, ma i mafiosi fanno tutti comunque una brutta fine. Eppure qualcosa manca all'appello per chiudere un'epoca e voltare pagina. Ed è quanto separa noi dalla verità. Noi dalla lealtà in una partita tutta ancora da giocare. Un vuoto di conoscenze e di comportamenti da colmare. Necessariamente. Lo dobbiamo ai nostri eroi. Ai nostri morti. Ai nostri figli.

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