Dal “taglio” al calice: la sfida senza tempo tra Primitivo e Negroamaro

Dal “taglio” al calice: la sfida senza tempo tra Primitivo e Negroamaro
di Renato MORO
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Domenica 12 Novembre 2017, 19:18 - Ultimo aggiornamento: 20:05
Nelle teche della Rai, o anche su Youtube, lo spot c’è ancora. Un cult. Anni ‘60, ma anche i primi dei ‘70. Carosello, bianconero, voce fuori campo come da protocollo e loro, i protagonisti: uno alto e grosso, l’altro mingherlino e soprattutto basso. Era l’omino Folonari, che inseguiva per tutta la giornata il gigante dopo averlo spiato, da una finestra, mentre beveva del buon barbera. Come avesse fatto a vedere la bottiglia, lui che negli occhiali di tartaruga aveva incastrati due fondi di bottiglia, è un mistero televisivo. Alla fine, però, ogni curiosità veniva appagata perché l’inseguimento finiva nel negozio dei vini. I Folonari, Francesco e Italo, vennero da Brescia in Puglia con i loro soldi all’alba del Novecento, per fare incetta di vigneti, e a Squinzano fondarono uno stabilimento. Moderno, per l’epoca, e grande. E cominciarono a produrre vino, a imbottigliare e spedirlo al Nord dove nei negozi andavano a ruba il barbera e il chianti e dove per la prima volta i lombardi conobbero il rosso Squinzano.
Negroamaro, il vino “nero nero”, quello dai polifenoli quasi miracolosi. Vino tosto, un tempo venduto in gran quantità ai produttori del Nord per impreziosire i loro vinelli e oggi vero e proprio ambasciatore del Salento nelle vinerie e nei supermercati di tutto il mondo. Come ambasciatore è anche il cugino Primitivo, sicuramente più conosciuto, che vanta vitigni più o meno gemelli in California e in Dalmazia e un brand affermato ormai da tempo. In più, il Primitivo ha anche un suo museo, mentre qualcosa di analogo per il Negroamaro ancora non esiste.
A San Martino, con i tini che ribollono e lo spiedo che scoppietta (ah, il grande Giosuè...), miglior “duello” non poteva essere raccontato. Parliamo dei vini più importanti di Puglia, anche se il Sangiovese (strano ma vero) sembra essere ancora il vitigno più coltivato da Foggia a Gagliano del Capo. E parliamo di numeri in crescita: nel 2015 nella grande distribuzione di tutto il mondo sono stati venduti 4,7 milioni di litri.
“Viticulosa” era la città di Manduria per Plinio il Vecchio. Già duemila anni fa era una zona di vigneti e proprio lì, oggi, si trova il cuore della produzione del Primitivo che si estende fino alla Campania e all’Abruzzo. Più concentrata nell’area delle province di Brindisi, Lecce e Taranto, invece, la produzione del Negroamaro, forse giunto da queste parti con i primi coloni della vicina Grecia. I messapi, in ogni caso, conoscevano il vino, lo consumavano in abbondanza e come i coloni ellenici collezionavano vasi e coppe di pregio che poi si portavano nella tomba perché nell’aldilà si continuava a bere e far festa. Il corredo trovato nella “sepoltura del principe” di Ugento, venuta alla luce un bel po’ di anni fa, è un bell’esempio di quanto raffinato fosse il gusto a quei tempi.
I fratelli Folonari non vennero fin qui per caso e nemmeno perché amavano il mare, che a quell’epoca interessava quasi esclusivamente per i traffici commerciali. Acquistarono distese di vigneti in Puglia, come fecero tanti altri ricchi imprenditori del Nord, quando, a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, la fillossera distrusse in pochi anni le viti francesi. Il parassita era giunto dall’America e quando ci si accorse della sua presenza era ormai troppo tardi. Un po’ come, nei nostri giorni, sta accadendo con la Xylella. Quasi azzerata la produzione, i francesi vennero in Italia ad acquistare il mosto e fu allora che la Puglia si trasformò in una sorta di Eldorado della vite. Investirono in tanti. E in tanti fecero affari d’oro finché il parassita non giunse anche da queste parti, devastando le colture e lasciando sul lastrico i contadini e i piccoli produttori. I grandi, invece, in qualche modo riuscirono a sopravvivere e quando la fillossera fu vinta, grazie all’innesto con la vite americana resistente al parassita, tornarono a produrre o a comprare Negroamaro e Primitivo da trasferire nelle cantine del Nord.
La fine della seconda guerra mondiale, la ricostruzione, l’alba del boom economico e le energie ritrovate spinsero i produttori locali a riprendere l’imbottigliamento, ma il grosso della produzione continuava a prendere la strada ferrata.
Vittorio Bodini, il poeta che soffriva per il suo Salento tanto sgradito da doverlo amare, lo scrisse in un articolo pubblicato nel dicembre del 1950: "È probabile, o molto probabile, che un contadino di Squinzano non riuscirebbe a riconoscere nel vino che si beve con questo nome in Italia il vino della sua terra, che è fortissimo, sui sedici e persino sui diciotto gradi, ed ha un cupo spessore in cui esalano i zolfi dei diavoli conficcati nelle profondità di questo suolo”. Era proprio così: Negroamaro o Primitivo, l’opinione dominante era che si trattava di vini particolarmente “difficili” per i gusti del mercato e quindi destinati al taglio. Il consumo era limitato al territorio di produzione. Il “vino nostro”, in altre parole, quello che si comprava vicino casa e nella Cantina sociale o si beveva nelle osterie.
Quello che, in damigiane o fiaschi di vetro ma soprattutto in taniche di plastica bianca, gli emigranti portavano a Torino, a Milano o a Berna e Stoccarda. Quando partivano, il macchinone del noleggio passava a prenderli da casa. Portavano con sé la valigia, il salame piccante e il vino per affrontare il freddo nei vagoni della terza classe cui si entrava dai finestrini per guadagnarsi un posto. E lasciavano a casa mogli o madri in lacrime, col vestito nero del lutto, e i resti della cioccolata che avevano portato tornando per il Natale, l’estate o la festa del paese.
Ora, per fortuna, non è più così. Gli stessi contadini di Bodini se potessero tornare in vita per bere un buon bicchiere di rosso riconoscerebbero il “loro” Negroamaro a Squinzano come a Stoccarda o a Berna. Forse si scandalizzerebbero per il costo della bottiglia in vineria o peggio ancora al ristorante, ma questa è un’altra storia. Persino l’autore di quell’articolo farebbe fatica a crederci. Nel 2015 il Negroamaro ha distanziato il Primitivo realizzando un +13 per cento sul mercato, in pratica conquistando il terzo posto in Italia in quanto a crescita delle vendite. Il “cugino” di Manduria e dintorni s’è fermato ad un +8,6%. Si parla di grande distribuzione, ovvero supermercati, e quindi sono esclusi i negozi specializzati e la ristorazione.
Una fetta di mercato sempre più importante, per entrambi i vitigni, è quella dei vini rosati, segmento in cui la Puglia è ormai leader. Era il 1943, la guerra ancora in corso e l’Italia spaccata in due, quando nella cantina di Salice dei Leone de Castris nacque il Five Roses, forse il rosato più conosciuto in Italia e nel resto del mondo. La famiglia possedeva diversi ettari di terreni in una contrada che era stata chiamata “Cinque rose”, nome scelto perché per diverse generazioni i maschi dei Leone de Castris avevano visto nascere cinque figli a testa. La traduzione in inglese fu fatta in onore di un generale americano che commissionò una consistente fornitura di vino rosato per le truppe alleate. Il “five roses” è Negroamaro arrotondato con una minima parte di malvasia nera di Lecce. Al vitigno salentino spetta il primato tra i rosati - ma anche il Primitivo ne propone di ottimi - e tra le bollicine, settore in cui le aziende salentine stanno cominciando a ottenere risultati importanti. Lì dove Manduria si prende una bella rivincita, però, è in una classifica che prende dalle guide di Gambero Rosso, L’Espresso, Veronelli, Bibenda, Vitae, e altre ancora: in questo caso il Primitivo Es di Gianfranco Fino è stato scelto per quattro volte come miglior vino rosso d’Italia.
Entrambi i vitigni hanno i loro fan. Non molti tra gli esperti, che apprezzano le etichette migliori di uno e l’altro vino, ma tanti tra i consumatori che badano più all’apparenza e meno alla sostanza. Il Negroamaro, infatti, è diventato il “vino ufficiale” del salentino tutto sole-mare-vento. E a cementificare questo rapporto “di sangue” hanno avuto e hanno un ruolo importante Giuliano Sangiorgi e gli altri musicisti che al vitigno di casa nostra si sono ispirati per dare il nome a quella che ormai è una tra le band più conosciute nel mondo occidentale. Unica modifica: la caduta della “o” centrale.
La tavola, in ogni caso, resta l’unico, vero banco di prova. Con una raccomandazione: se non si è esperti, se non si ha sulla parete un diploma di sommelier, è inutile avventurarsi a caccia di profumi di sottobosco, sentori di liquirizia, unghie limpide, acidità, retrogusti e tannini vari. Un buon vino non necessariamente deve ripulire il palato come uno sgrassatore Chante Clair. Il vino è buono quando piace.
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