Numeri in calo e spaccature: così il Pd è crollato in Puglia. Tutti i vertici sono a rischio

Numeri in calo e spaccature: così il Pd è crollato in Puglia. Tutti i vertici sono a rischio
di Francesco G.GIOFFREDI
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Giovedì 8 Marzo 2018, 16:57
Radiografia di un collasso. Maturato negli anni, sedimentato dagli errori, gonfiato da un anabolizzante qui molto in voga: le laceranti divisioni interne, le randellate tra compagni che tutto amplificano, e che contribuiscono alla fuga di elettori su larga scala. Il Pd rischia così d’essere l’avatar della politica pugliese: c’è, ma non esiste; governa la Regione, ma ha basi friabili, zero coesione e visione ondivaga - se non contraddittoria. La diagnosi, prima ancora che dai numeri, comincia allora proprio da qui: dalle contraddizioni, spesso spiazzanti. Se il partito pugliese alle elezioni di domenica è imploso al 14%, dunque cinque punti in meno del già drammatico dato nazionale, vuol dire che c’è dell’altro: c’è per esempio l’insanabile frattura tra area Emiliano e renziani, c’è una autorevole quota del partito che ha contestato quasi sistematicamente le scelte di Largo del Nazareno - anche in campagna elettorale - così indebolendo tutti. Insomma: nessuno può essere esentato da colpe. Ancor più se il partito amministra la Regione, se il governatore ha indicato candidati in postazioni nevralgiche (tre capilista su sei: tutti eletti), se ha marcato la differenza «del Pd pugliese», e se alla fine il partito in campagna elettorale ha parlato linguaggi diversi, spesso opposti, su temi cruciali. Da Ilva a Tap, dal Jobs Act alla Buona scuola.

Ovviamente, non sono immuni da critiche gli stessi renziani: negli ultimi tempi, quando ormai tirava aria di tempesta cinque stelle, più di qualcuno s’è arroccato nella rendita di posizione. Anche per questo ora sul banco degli imputati finiscono tutti: cresce il malumore, trasversale, verso la segreteria regionale. Il renziano Marco Lacarra è stato eletto deputato (da capolista a Bari), ma già c’è chi ne ha chiesto le dimissioni da segretario: è il caso dei consiglieri regionali (candidati non eletti in collegi uninominali) Donato Pentassuglia e Fabiano Amati. Entrambi renziani. Nel convulso tourbillon di scomposizioni e ricomposizioni il pressing diventerà più robusto e nel tritacarne potrebbero finire così anche i segretari provinciali. «Anche se - fa notare più di qualcuno - sono lì da poco tempo e non hanno grandi responsabilità del tracollo».

La lettura dei dati, percentuali e assoluti, descrive la parabola al ribasso. Domenica il Pd pugliese ha raccolto 298.710 voti alla Camera e 281.639 al Senato: il 13,6% e il 14,22%, tra le peggiori performance italiane (peggio ha fatto solo la Sicilia). Una mazzata improvvisa frutto dell’ondata nazionale e meridionale? Non proprio: i sintomi affioravano già nel 2015, quando il centrosinistra di Emiliano veleggiò senza patemi alle regionali. La percentuale del partito fu del 19,8%, ma in termini assoluti i democratici racimolarono 316.086 voti, sideralmente lontani dai 550.086 delle europee. La spia sul quadro comandi, in quel 2015, era già accesa e si chiamava “affluenza”: alle urne si presentò appena il 51,16% degli elettori pugliesi. Dalle trincee emilianiane tuttavia obiettano: ma ai numeri del Pd bisognerebbe sommare quelli delle due civiche del presidente (che contribuirono con 155.840 e 108.920 voti). Vero, ma solo in parte: innanzitutto non è aritmetica la “transumanza” degli elettori da progetti civici, ancorati notoriamente a riferimenti e candidati locali, verso il Pd; e poi qui in ballo c’è il peso autonomo del “marchio” dem.

Si accennava alle europee del 2014, quelle dell’irripetibile e sempre citato 40% renziano. Già all’epoca il Pd pugliese mostrò vistose incrinature e crepe: si fermò al 33,58%, sette punti in meno del dato-monstre nazionale. Emiliano era da qualche mese segretario regionale, ma s’era già aperto il primo fronte di guerra con Renzi - proprio sulla candidatura all’Europarlamento. Ma il disallineamento del partito pugliese dal trend nazionale era tangibile anche alle politiche del 2013: Pd tra il 18 e il 20% (Camera e Senato), in tutta Italia tra il 25 e il 27%. In ogni caso, cinque anni fa i democratici rastrellarono una dote di voti superiore a quelli delle regionali (83mila in più, considerando il Senato). 

Per rintracciare invece un Pd pugliese in linea con la curva nazionale bisogna risalire fino alle politiche del 2008: 31%, non troppo dissimile dal 33% del Pd italiano (veltroniano). Oltretutto, in quella tornata i democratici pugliesi s’arrampicarono fino a 739.952 preferenze, asticella mai raggiunta: nemmeno alle europee del 2014.
Oltre alle responsabilità dei singoli, alle concause strutturali e alla balcanizzazione del partito, cosa ha danneggiato ulteriormente il Pd domenica scorsa? La tenuta dell’affluenza: in Puglia ha votato il 69% degli aventi diritto (il 19% in più delle regionali), l’analisi dei flussi racconta che una quota di delusi dal centrosinistra non ha scelto di restare a casa, ma s’è spostata verso i cinque stelle. Istituto Cattaneo e Swg hanno quantizzato nel 15-20% la fetta di elettori (ex) dem inglobata dai pentastellati a queste politiche. E in una regione in cui si profetizza l’asse Pd-M5s, la percentuale di migrazione sarà stata almeno quella.
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