Prodi: «L'isolamento è pericoloso. Le Europee sono una grande opportunità»

Romano Prodi
Romano Prodi
di Mimmo SACCO
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Domenica 10 Marzo 2019, 19:41
Professor Romano Prodi, le elezioni europee vengono considerate unanimemente un passaggio cruciale per il futuro dell'Europa. Lei le paragona per importanza al voto del 18 aprile del 1948. Un'affermazione molto forte. Pensa possano svegliare le coscienze politiche di un elettorato che sembra non afferrare con chiarezza l'enorme portata politica di questo appuntamento?
«Nessuna nazione, seppur forte, potrà mai competere con Cina o Stati Uniti. Incalzati come siamo da una globalizzazione che ci stringe, se non vogliamo fare la fine degli Stati italiani del Rinascimento, scomparsi dalla carta geografica per 400 anni perché non attrezzati ad affrontare la prima globalizzazione, ossia la scoperta dell'America. Per gli stati europei non vi è altra possibilità che riaffermare e portare a termine il progetto dell'Europa con il solo mezzo capace di incidere in concreto nella vita dei cittadini: l'azione politica. E se questo non basta allora si osservi la drammatica situazione in cui si trova oggi la Gran Bretagna, dopo lo scellerato referendum che ha visto l'affermazione della Brexit: la reale situazione di divorzio ha reso chiaro quanto grave sia la perdita dei vantaggi che l'Unione ha reso possibile, nonostante i suoi limiti».
Cosa ci si può aspettare in positivo dal 26 maggio?
«Le elezioni europee rappresentano una straordinaria occasione per riaffermare il primato della politica e vincere l'immobilismo che ha contraddistinto l'Unione in questi anni. Norme e indicazioni europee, anche se giuste e importanti, non bastano, da sole, a soddisfare il giusto fronte d'attesa dei cittadini europei. Nella lunga crisi economica e finanziaria che ci ha colpiti, la mancanza dell'Europa politica, capace di scelte ispirate alla solidarietà e alla lotta alle disuguaglianze, ha alimentato sentimenti sovranisti e rinfocolato diffidenza, antichi nazionalismi ed egoismi. Dobbiamo tornare a praticare politiche comunitarie, riscoprendo il senso vero della nostra Unione».
Come si può recuperare lo spirito dell'Unione?
«Ci siamo uniti per mettere fine agli orrori della guerra e abbiamo garantito oltre 70 anni di pace entro i nostri confini, mentre nei Balcani abbiamo assistito a veri e proprio massacri e persecuzione etniche. Abbiamo creato un mercato comune che ha garantito benessere, sviluppo, libertà di movimento di uomini e di merci. Il nostro stato sociale resta la conquista e il traguardo impossibile da raggiungere persino per gli Stati Uniti. Con l'allargamento abbiamo esportato, senza un solo ferito e senza focolai di guerra, la democrazia ai Paesi dell'Est europeo. Questo non è un cammino che si possa invertire. Alle elezioni europee dobbiamo decidere quale volto dovrà avere l'Europa, se sarà quindi capace di rigenerarsi, riscoprendo i suoi valori fondanti, o se sarà l'espressione degli egoismi nazionali. Per questo dico che queste elezioni rappresentano, come lo furono quelle del 48, una scelta che riguarda il futuro in cui vivranno i nostri figli e i nostri nipoti. Una scelta che avrà conseguenze durature nel tempo».
Lei invita ad esporre il 21 marzo la bandiera europea accanto a quella italiana. Quale lo scopo?
«Ho avanzato una proposta, un po' inusuale per me, per risvegliare l'emozione e scaldare il cuore delle persone. È necessario ritrovare un sentimento comune di appartenenza. La bandiera è il primo simbolo, il più immediato, per poterlo fare. È bene ricordare che l'Europa non è nata per l'interesse dell'uno ai danni dell'altro, ma ha segnato l'inizio di una nuova stagione di pace e di benessere che ha coinvolto centinaia di milioni di persone suscitando, ad ogni passaggio cruciale, un sincero entusiasmo popolare. Il 21 marzo mi sembra il giorno giusto: segna l'inizio della primavera ed è il giorno di san Benedetto, patrono dell'Europa. Le bandiere che in quel giorno sventoleranno assieme saranno un modo collettivo per manifestare il nostro attaccamento al progetto europeo. Spero che l'invito sia colto da tutti, al di là delle diverse appartenenze politiche, perché l'Europa è di tutti. Il mondo ha bisogno di Europa, questo è il senso della mia proposta».
È opinione molto diffusa che serva un'idea di Europa diversa. Quali riforme lei considera prioritarie?
«Prioritaria è la ripresa di una politica comune: in questo contesto tutto può diventare occasione di integrazione europea. La ripresa del lavoro comune tra i Paesi è l'unica strada per ritrovare coesione e unità necessarie non solo per affrontare le Cina e Stati Uniti, ma anche per sconfiggere la frammentazione interna che finirebbe con il penalizzare le nazioni più deboli, come l'Italia, a vantaggio dei più forti. In questo ambito è necessario che la Commissione riacquisti il potere che ha perduto in favore del Consiglio Europeo. Abbiamo la moneta comune che è primo pilastro dello Stato moderno, la costruzione del secondo pilastro, cioè l'esercito in comune, potrebbe essere una grande occasione di aggregazione, oltre che una risposta a Trump. Ci sono poi le politiche comuni in tema di migrazione, che sono un fenomeno destinato a perdurare nel tempo e che non può essere risolto con la chiusura dei porti o con la costruzione di muri, ma con una nuova politica comunitaria che non lasci soli i Paesi di frontiera e che allo stesso tempo disinneschi la continua tensione libica e nel Medio Oriente».
In questo contesto c'è anche da considerare la progressiva espansione della Cina in Africa, non è così?
«Ho più volte auspicato che la Cina non resti il Paese dominante che investe nel continente africano, ma che anche l'Europa si faccia avanti con reali aiuti allo sviluppo. La Cina ha bisogno dell'Africa perché necessita di risorse e di cibo, noi abbiamo bisogno che l'Africa cresca e diminuiscano le tante tensioni se vogliamo che, nel tempo, le migrazioni rallentino. E un'intesa con la Cina in questo senso sarebbe possibile. Occorrono però politici che ci credano e che portino avanti queste proposte. I partiti sovranisti sostengono sempre che bisogna aiutare i migranti a casa loro, ma in realtà nessuno di loro pensa davvero di farlo».
Macron e Merkel hanno firmato il trattato di Aquisgrana, verso questa nuova intesa non sono mancate critiche e riserve. Si parla di egemonia sull'Europa. Quale la sua lettura?
«L'accordo non costruisce un'intesa profonda come fu quella tra Kohl e Mitterand; non ha preparato una linea comune nei grandi temi in cui Francia e Germania mostrano sostanziali divergenze, e cioè la politica estera e la politica economica. Aquisgrana contiene però il messaggio che qualsiasi futura politica europea deve passare attraverso un accordo di esclusiva fra Francia e Germania, anche se, nei campi in cui vi è divergenza, questo porta alla paralisi. Da Aquisgrana derivano però due conseguenze: la prima è che l'Italia, per la sua sciagurata politica, non potrà più esercitare qual ruolo di equilibrio di cui è stata capace in passato. La seconda conseguenza è che nei settori in cui vi è un interesse comune, la collaborazione fra Francia e Germania diverrà più operativa. Nel campo della politica industriale si è già concretizzata una strategia comune che, ovviamente, ignora l'Italia».
Soffia forte il vento a favore dei sovranisti e populisti che spingono verso l'euroscetticismo. A costoro non bisognerebbe ricordare che un'Europa forte, coesa e solidale può giocare un ruolo di equilibrio e di moderazione sulla scena mondiale? Al contrario un UE debole e frammentata diverrebbe inesorabilmente preda degli interessi delle super potenze.
«Non sarebbe difficile capirlo, ma dal punto di vista della ricerca del consenso interno non conviene a molti. Ci si dimentica però che se nell'immediato non conviene, nel lungo periodo sarà anche pericoloso. È più facile dare la colpa a Bruxelles per tutti i guai nazionali e ha pagato, in termini di consensi, inventare un'Europa figlia della finanza. L'Europa è la sola nostra speranza dinnanzi alle sfide che il mondo globalizzato ci pone. Ma occorre un'Europa che intenda completare il suo progetto di unificazione e che non torni indietro. Divisi continuiamo a perdere».
La crisi politica tra Francia e Italia è dovuta a un incontro di Di Maio a Parigi con un rappresentante dei gilet gialli. Un gesto di sconcertante leggerezza o provocatorio? E questa mossa potrà avere delle ricadute negative sul piano dei rapporti economici e commerciali?
«Fosse solo con la Francia... Il governo italiano ha già avuto tensioni con la Germania, con l'Olanda, con il Belgio. Quella di Di Maio è stata una mossa infelice, credo dettata dall'urgenza di trovare gli alleati necessari per la lista europea. Una mossa che ha fatto reagire Macron ma che, dati gli interessi reciproci, non credo avrà conseguenze irrimediabili. Ciò che è grave è l'isolamento a cui ci si vuol consegnare. Non agiamo in consonanza nemmeno con le nazioni che il nostro attuale governo sente più affini per scelte politiche, come la Polonia o l'Ungheria. Così certo non si aiutano le nostre disastrate finanze che avrebbero invece bisogno di cooperazione con tutti gli altri Paesi europei».
Quali segnali preoccupanti vengono dall'ondata di antisemitismo in Francia?
«Il fenomeno francese non è un caso isolato. Soffiare sulle vele della paura risveglia antichi odi e fanatismi che possono anche innestarsi nei movimenti di protesta. E la guerra di tutti contro tutti, la battaglia per l'affermazione della supremazia, alimenta questo genere di manifestazioni violente, fino alle espressioni di odio razziale. Ogni gruppo etnico riscopre così le sue presunte ragioni di diffidenza verso gli altri e perde di vista le ragioni per cui la convivenza pacifica, nella diversità, è una conquista civile ed etica che tutela tutti».
Ci troviamo di fronte a una grande sfida?
«Sì, è una sfida, politica e insieme culturale. L'Europa è la costruzione di uno spazio libero e democratico sorto per porre fine agli orrori della guerra e alle persecuzioni etniche. È un errore dare per scontata la pace e non promuovere ogni occasione possibile per riscoprire quali sono davvero le ragioni per cui ci siamo uniti. Basti pensare a cosa è stata la guerra dei Balcani, quali violenze si sono scatenate tra i diversi gruppi etnici e con quali conseguenze. Noi europei abbiamo il dovere di preservare il ricordo, la memoria di ciò che è stato, ma ancora di più di operare, soprattutto attraverso le scelte politiche, perché ciò che è stato non accada mai più».

 
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