Una cena al buio, per ritrovare un senso

Elaborazione grafica di Max Frigione
Elaborazione grafica di Max Frigione
di Rosario TORNESELLO
7 Minuti di Lettura
Lunedì 22 Aprile 2019, 19:20

L'ultima immagine è negli alberi di ulivo, due esemplari di Cellina. Sono ai lati della porta d’ingresso, piantati in vaso e perciò facili da spostare, all’occorrenza. Nella lotta alla xylella ci si è dimenticati della buona pratica dei sofisti: Achille piè veloce, dicevano gli antichi filosofi, non prenderà mai la tartaruga. L’eroe greco corre più svelto della testuggine e le concede ampio vantaggio: lui fa dieci metri e quella solo uno; lui compie un metro e l’altra un decimetro e così all’infinito, per successioni infinitesimali. Lo asseriva Zenone, argomento datato. La cicalina sputacchina, notoriamente illetterata, salta di ulivo in ulivo perché non legge i classici: sfiancare la spargitrice di batteri spostando vasi poteva essere un’idea (considerate le altre...). Comunque, l’ultima immagine è quella. Gli ulivi. Evocativa per mille motivi, ancor più alla vigilia di Pasqua. Poi, varcata la porta, si spengono le luci, tutte, e ogni cosa scompare alla vista. Questa è una cena al buio. Ma buio buio. Buio pesto.
 

 

La cantina sociale di Copertino ospita per la quarta volta l’Ascus. Iniziativa benefica: a tavola per raccogliere fondi. Si è sociali non solo per via dei soci, ma soprattutto perché si è solidali. La loro è un’amicizia nata da pochi anni: Ascus sta per Associazione sportiva culturale salentina, quattordici persone, molti impegni, a partire dallo sport, e non poche spese cui dover far fronte. Sono ragazzi e uomini. Soprattutto, sono non vedenti. Diversamente abili sarebbe riduttivo e ingeneroso, il palmares è un tripudio di allori: dieci volte campioni d’Italia di calcio a 5 per non vedenti, più altri dieci trionfi equamente ripartiti tra Coppa Italia e Supercoppa. L’ultimo scudetto – quello della stella – due anni fa. Da allora Crema gli dà filo da torcere nella corsa tricolore. In compenso quest’anno, chiuso al secondo posto, si punta ancora al brindisi in Coppa, fase finale tra poche settimane a Siracusa. La cena è per loro. Il ricavato, per l’associazione. Ospiti ai tavoli, serviti dai componenti di Ascus (sei in sala), una cinquantina di invitati: c’è una delegazione dei Lions, il gruppo teatrale di Scena Muta (il nome non tragga in inganno), diversi amici e, presenza d’eccezione, lo stilista Pino Cordella. Qui sono i normodotati i diversamente abili, e per dirla tutta davvero molto poco abili. Impacciati. Timorosi. Frastornati. Buio in sala. Ma buio buio. Si gioca alla pari.

Primo passo, entrare in fila indiana a gruppi, destinazione la sala convegni della Cupertinum, e attenti a non inciampare. L’ingresso è la stanza di compensazione. Luce spenta: la porta che si richiude alle spalle sigilla gli ultimi spiragli di luce, segnando il gran balzo. D’ora in poi a guidare saranno loro, luce nell’oscurità: ti accompagnano alle sedie, ti fanno accomodare, ti spiegano cosa accadrà. Quasi non li lasceresti per non perderti nel buio e non sprofondare in chissà quali abissi. La vista, ormai è chiaro, guida gli altri sensi: persa quella, i punti di riferimento saltano. Per tutti, ma non per loro: la cecità esalta altre capacità. Notevoli. Volteggiano tra i tavoli, ti sfiorano appena, ti toccano solo per darti il calice di vino. Non lo fanno per sé, lo fanno per te: potresti tappezzare l’ambiente con cocci di vetro, come dargli torto? Qualcuno abbandona la sala subito: troppo forte l’impatto. Gli altri - convinti o titubanti - si lanciano all’avventura: non si tratta solo di armeggiare con le posate, ché già questo basterebbe, l’impresa è capire cosa c’è nei piatti. Olfatto e gusto risentono clamorosamente del black-out. Il tatto fa quel che può. L’udito, poi, quello è messo a dura prova: non sapendo nulla dello spazio intorno, la tendenza è ad alzare la voce per attirare l’attenzione dei commensali. Già dall’antipasto è chiaro che non è serata nel ribaltamento dei ruoli: servono carpaccio di orata, accompagnato da un calice di chardonnay, e nessuno indovina cosa sia. La memoria fruga nei ricordi, sbagliando mira: pesce spada, tonno, financo alici... All’arrivo del primo la forma dei gamberi concede al palato una tregua immediata per decifrare il risotto. Al secondo, il capocollo ubriaco inebria quanto basta per evitare svarioni. Ora arriva anche il rosso, dopo il turno del rosato: la differente temperatura è notevole indizio. Infine il dolce, il mustazzolo, con la grappa di casa: ormai è chiaro, in cucina si devono esser mossi a pietà. Grandi.

Salvatore Peluso, fondatore e per trent’anni presidente dell’Ascus, fa gli onori di sala, alternando accanto a sé il presidente della cantina Francesco Trono e l’enologo Giuseppe Pizzolante Leuzzi. “Mo’ be ciecu l’ecchi”, minaccia a chi non abbassa la voce. L’ironia è sempre elisir di lunga vita. Cinquantacinque anni, sposato, due figli. È in pensione dopo la lunga stagione trascorsa al centralino del palazzo di giustizia. Ha perso la vista da ragazzino. Un tragico incidente: aveva cinque anni, con due amichetti trovò per caso una granata di guerra dietro a un muretto. Il più grande di loro, poco immaginando, azionò quel residuato bellico: la deflagrazione investì tutti. Salvatore fu colpito agli occhi, all’altro saltò un braccio. Il terzo bambino, centrato in pieno dall’esplosione, morì. «I tentativi di recuperare sono stati inutili, così a dieci anni ho perso completamente la vista», racconta Salvatore. L’idea dell’Ascus è sua. Merito del pallone, una passione fin da piccolo. Il calcio a 5 parte proprio da qui, da Lecce, da lui. «All’inizio giocavamo con una palla avvolta da una busta di plastica, un espediente per seguirla con il rumore». Poi sono arrivate le sfere con i campanellini all’interno. L’Ascus nasce nel 1985, affiliata all’Uisp, Unione italiana sport per tutti, e ora alla Federazione italiana sport per ciechi. La squadra, oltre a mietere vittorie, sforna atleti per la nazionale: prima Davide Dongiovanni e Pantaleo Bortone, adesso Massimo Cervelli, presidente da tre anni, e Mattia Persano, il portiere, l’unico giocatore vedente per compagine (nessun imbroglio, è il regolamento). Per il resto, a dirigere i movimenti degli atleti ci sono due assistenti per formazione, uno dietro la porta e l’altro a metà campo. Rischio incidenti? «Come per i normodotati». A settembre arrivano i campionati europei. Loro si allenano sui campetti di San Massimiliano Kolbe. «Il nostro sogno è farci adottare dall’Unione sportiva Lecce. Costiamo poco, cinque-seimila euro l’anno». L’annuncio è servito. L’interessato leggerà.

In sala, intanto, i compagni di Salvatore finiscono il giro tra i tavoli. Sono espertissimi, ormai. Fanno cene al buio dal 1998. Toni Donno, laureato e centralinista negli uffici regionali, intervista i commensali. La voce baritonale squarcia il buio e doma il brusio. Massimo Cervelli, Giuseppe Quarta, Andrea D’Agostino e Davide Dongiovanni completano la squadra. Antonio Potenza, l’allenatore dell’Ascus, vedente, dirige i lavori in cucina. Il senso della serata è oltre la solidarietà. Francesco Trono, il presidente della Cupertinum: «Se non provi alcune sensazioni non puoi apprezzare la tua e la loro vita». Da qualche stagione, in settembre, i bimbi non vedenti vengono in cantina per la vendemmia: raccolgono i grappoli, pigiano i chicchi con i piedi nei tini. Quest’anno arriveranno da tutta la Puglia. Ivan Raganato, direttore di Scena Muta: «Un’esperienza forte confrontarsi con quello che non conosciamo». Da anni lui è una delle voce narranti del progetto “Il libro parlato”. Infine Pino Cordella, che al buio lancia l’idea di una sfilata assieme: «Immaginare i volti, percepire gli spazi, indovinare i sapori. Capisci la grandezza di tante cose. Sono sensazioni che ingrandiscono il cuore».

Infine la luce. Arriva dopo oltre due ore e dà quasi fastidio prima di restituire sollievo: le pupille dilatate non riescono a filtrarla, le immagini ti piombano addosso, violente. E il buio, svanito, è già quasi un rimpianto per la riscoperta di sensi a lungo sopiti e tanto male impiegati. Per te, almeno. Perché per loro, i custodi dell’oscurità, la vita ha da tempo dimensioni multiple e ulteriori significati rispetto a noialtri, diversamente abbrutiti: ha perduto “un” senso, certo, ma non ha smarrito “il” senso. Così i due alberi di ulivo, all’apparenza ancor più illuminati a cena finita, diventano testimoni silenziosi di questa speranza. Vivere, non sopravvivere.


 

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