La criminalità e il silenzio di sindaci e imprese: nella morsa tra la paura e la lusinga

La criminalità e il silenzio di sindaci e imprese: nella morsa tra la paura e la lusinga
di Rosario TORNESELLO
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Domenica 2 Febbraio 2020, 09:34 - Ultimo aggiornamento: 20:32
La parola chiave è una negazione. Tre lettere appena, ma in maiuscolo a evidenziare il concetto. NON: solo questa. Nel gioco degli specchi al quale il procuratore generale Antonio Maruccia invita i presenti, e soprattutto gli assenti, la negazione diventa un’affermazione di responsabilità che chiama tutti a un esame di coscienza e svela il punto debole di un territorio intero. Il Salento incastonato nei confini della Corte d'appello, tra Lecce, Brindisi e Taranto, ha schivato la trappola mortale della devastazione mafiosa ma forse (forse) non quella successiva: l’abbraccio letale con la cultura criminale. Se non è connivenza, è assuefazione. Se non è convenienza, è coesistenza. Ignorare il tema non determina automatica innocenza. E alla furbizia, nella sua variante truffaldina parente prossima della delinquenza, qui sono riservati fin troppi omaggi. Punto primo.

Il “consenso sociale” alla criminalità organizzata, elemento di novità dell’ultima stagione di analisi e azioni di contrasto, scompare come concetto dalla cerimonia inaugurale dell’Anno giudiziario. Lo stesso marchio di fabbrica dell’associazione criminale - Sacra corona unita - ricorre una sola volta tra le due relazioni distribuite in aula, quella del presidente della Corte d’appello Lanfranco Vetrone e l’altra, del procuratore generale. Sottrarre alla Scu il suo nome è già un po’ scalfirne l’identità, e va bene. Comunque non importa. “Non”, appunto: maiuscolo o minuscolo, cambia poco. I dati quantitativi e qualitativi, infatti, testimoniano la persistenza del carattere mafioso dei gruppi nei quali è strutturata la nostra criminalità organizzata, comunque la si voglia chiamare, e tuttavia - sottolinea Maruccia - “anche quest’anno, come in passato, le indagini sulle infiltrazioni negli enti locali e nelle imprese NON sono state avviate sulla scorta di segnalazioni degli amministratori o degli imprenditori”. Parallelismo sinistro e silente. Qui il maiuscolo fa la differenza. Punto secondo.

Cosa non abbiamo fatto - cosa - in tutti questi anni? Non ci siamo ricordati della Scu, ad esempio. Semplice. Inabissatasi, camuffatasi, mimetizzatasi, ma non scomparsa. Errore di valutazione. L’ultima relazione della Direzione investigativa antimafia traccia il volto nuovo della criminalità salentina: sempre più imprenditrice e affarista, pronta a cogliere le sfide della modernità, lanciata in business e accordi strategici da una sponda all’altra del Mediterraneo, irrobustita dall’inserimento dei giovani e tramandata come (dis)valore dall’azione “pedagogica” delle donne, centrali negli assetti organizzativi e nel management aziendale. Se il resto del Sud volgesse in positivo identici criteri, avremmo risolto buona parte dei problemi. Così non è, evidentemente. “È la stessa evoluzione della criminalità organizzata nel distretto a chiedere competenza e qualità”, spiega Maruccia. Forze di polizia, magistratura e prefetture si muovono al passo: in un anno duecento arresti per reati associativi e delitti di criminalità organizzata, ventitré interdittive antimafia a carico di altrettante aziende, scioglimenti a cascata di Consigli comunali fin troppo “permeabili”. Eppure, conclude il procuratore generale, “l’antimafia che vorremmo realizzare è quella che punta a mettere la politica e l’amministrazione nella condizione di fare bene, promuovendo lo sviluppo senza i lacci della criminalità, senza il veleno della corruzione”. Fuori dalla paura, al riparo dalla lusinga.

Tuttavia questo è il dato: gli imprenditori NON denunciano le estorsioni, gli amministratori pubblici NON segnalano le infiltrazioni. Di cos’altro ci siamo dimenticati, allora? Degli anticorpi sociali, probabilmente. Della cultura istituzionale. Della capacità di scegliere i rappresentanti politici, a partire dal livello locale, sulla scorta di competenze e capacità progettuali, non in base alla potenza di fuoco espressa in voti, unico “valore” rimasto una volta scomparsi i luoghi - partiti inclusi - in cui la discussione diventa selezione. E anche dell’opportunità di fare rete al di fuori della grande, unica e sola Rete, ci siamo dimenticati. Non si era arrivati a tanto neppure negli anni più tristi e lugubri dell’offensiva mafiosa, dove solo la parola incuteva timore. Se ad emergere è la capacità dei criminali di porsi come interlocutori affidabili di amministrazioni pubbliche e imprese private il punto di rottura deve essere nella fragilità, ma forse anche nella solitudine, di chi si trova più esposto in prima linea. Certo: non tutti sono così, non dappertutto gira allo stesso modo. Ieri a Bari, valga solo a mo’ di esempio, l’ultimo in ordine di tempo, il sindaco Decaro ha denunciato in Questura la “stravagante” idea di un clan del posto di fare festa in strada in onore del boss proprio oggi, 2 febbraio, con fuochi d’artificio e luminarie, al quartiere Libertà (tenere a mente). Ma il fatto che faccia notizia testimonia l’eccezionalità dell’evento. Così il problema resta, e gli appelli a parlare, segnalare, denunciare rischiano di essere solo una bella esortazione o poco più nel vuoto di attenzione che spesso li circonda. L’antimafia in toga e divisa c’è; quella sociale pure: molte iniziative e buona volontà, ma ancora non basta. Serve altro, molto altro.

Libertà, ad esempio. Il punto di approdo diventa suggestione. E la parola ricorre, non sotto forma di indicazione geografica ma come snodo vitale, nella stessa relazione del procuratore generale. “Come diceva il presidente Pertini, la libertà senza giustizia sociale non esiste. E la giustizia sociale può essere assicurata solo dall’impegno unitario delle istituzioni e della comunità dei cittadini”. Servirebbe questo, intanto. E tuttavia ancora NON basterebbe.

 
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