Ristoranti, Chef Cracco: «Perso un dipendente su 3, ma mi sono reinventato. Una lezione per i miei figli»

Chef Cracco: «Perso un dipendente su 3, ma mi sono reinventato. Una lezione per i miei figli»
Chef Cracco: «Perso un dipendente su 3, ma mi sono reinventato. Una lezione per i miei figli»
di Carlo Ottaviano
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Martedì 8 Giugno 2021, 22:28

«A febbraio dello scorso anno avevo 97 dipendenti, adesso una sessantina, ma con le prossime aperture il saldo potrebbe essere positivo». Carlo Cracco, notissimo chef veneto con ristoranti a Milano e tra due settimane anche a Portofino, severo giudice (bello e tenebroso, dicono le fan) nei talent televisivi, riavvolge il nastro di questi difficilissimi mesi.


Con che animo domani si riapre?
«Con i piedi ben piantati per terra, evitando che succeda come dopo la prima riapertura della scorsa estate e poi il lockdown dall'autunno.

Dobbiamo essere cauti, prudenti, non fare gli errori dello scorso anno. A ricadere indietro è un attimo. E non dimentichiamo quel che abbiamo vissuto, anche psicologicamente».

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In che senso?
«Ricordandoci l'anno surreale che è stato. Quando siamo stati travolti dalla pandemia, qui a Milano eravamo nel pieno delle fiere della moda. Un mare di lavoro, i ristoranti strapieni, eventi ogni sera. Improvvisamente tutto si ferma e scopri che il mondo sta cambiando. Ma non riesci a capire come. Non avevamo mai vissuto nulla di simile. Ricordavo da bambino le domeniche a targhe alterne per la crisi petrolifera: niente al confronto. A un certo punto sai solo che nulla sarà più come prima».


Lei come ha reagito?
«Cercando nuovi stimoli. Ti reinventi ogni giorno e vai avanti. Io non ho mai chiuso Cracco in Galleria. Abbiamo iniziato a produrre cibo da asporto. L'abbiam fatto non per una questione di sopravvivenza ma di orgoglio. Anche con la scuola di cucina che dirigo siamo andati avanti, per esempio promuovendo quando è stato consentito i chicnic al parco».


Per i ragazzi della brigata di cucina e i camerieri?
«Ho cercato nel possibile di dare modo a tutti di poter lavorare. Il segreto è restare uniti e condividere le difficoltà. Abbiamo adottato delle rotazioni e chi era nei turni ha svolto anche attività solitamente non sue».

 


Cosa cambierà adesso?
«Per tutti lo spazio esterno non sarà più un'appendice nei soli mesi estivi, ma una realtà molto importante tutto l'anno. I ristoranti di un certo livello, inoltre, sono abituati da parecchi anni a prendere nome, telefono e mail di chi prenota e a garantire ampi distanziamenti. Si salverà chi ha sempre lavorato sulla qualità e non sulla quantità. Quel che è accaduto ha insegnato però a tutti che non bisogna strafare, che si deve pensare a un futuro sostenibile. L'alternativa della parola sostenibile è impossibile, porta alle chiusure. Non è più tempo di guardare solo ai numeri, ma anche alla qualità e alla professionalità».


Forse per la prima volta voi cuochi siete stati costretti a casa la sera con i figli.
«Sì, ho apprezzato cose che prima non conoscevo. Però allo stesso tempo sono uno che non si ferma. Non vivo di rendita, quello che ho fatto l'ho sempre rimesso nel piatto, con la convinzione che non basta lavorare ma anche costruire. Ai figli che mi vedevano girare per casa ho cercato di far capire delicatamente che stavamo attraversando un momento della vita, che non ci si deve lamentare».


Lei è stato sicuramente avvantaggiato dall'essere notissimo anche per le presenze in tv. Non è così per tutti.
«Certo, sarebbe offensivo negarlo. Ma non basta. Ripeto: il punto è avere una visione. In Italia, fortunatamente, la qualità è alta in generale. Ma la differenza la fa il saper durare nel tempo, vedere oltre il proprio naso, rischiare in modo ragionevole. Rispetto all'epidemia spagnola siamo sicuramente meno terrorizzati di chi la visse all'epoca, ma adesso abbiamo però imparato che basta un niente a scatenare un disastro. Però non possiamo fermarci».

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