Assange, piani di fuga e coperture sospette: sull’hacker lo scontro Russia-Usa

Assange, piani di fuga e coperture sospette: sull hacker lo scontro Russia-Usa
Assange, piani di fuga e coperture sospette: sull’hacker lo scontro Russia-Usa
di Flavio Pompetti
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Venerdì 12 Aprile 2019, 07:33 - Ultimo aggiornamento: 13:23

Julian Assange aveva provato in tutti i modi a disegnare un epilogo diverso da quello che si è verificato ieri. Nell’ultimo anno, da quando il nuovo presidente ecuadoriano Lenin Moreno si è insediato alla guida del Paese dopo aver promesso che avrebbe accettato la sua estradizione, l’editore di Wikileaks si era reso conto che le sue ore nell’ambasciata di Kensington Bridge erano contate. Lo scorso settembre era riuscito ad ottenere un nuovo passaporto australiano, mentre in Svizzera il Partito Popolare aveva richiesto che il Paese alpino gli concedesse l’asilo politico. Lo stesso governo Moreno gli aveva offerto una parziale immunità se avesse lasciato volontariamente l’ambasciata: la promessa che non sarebbe stato estradato in un Paese il cui ordinamento giudiziario contempla la pena capitale (compresi gli Usa), dopo aver scontato pochi mesi di detenzione in Inghilterra per aver violato i termini della libertà condizionale. 


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Fin qui le iniziative visibili, sopra l’orizzonte dell’ufficialità. Sotto il tavolo nel frattempo il suo sponsor più fedele, la Russia, lavorava ad altre ipotesi. La notte del Natale 2017 il “terrorista internazionale”, nella definizione dell’ex vice presidente Usa Joe Biden, sarebbe dovuto fuggire dall’ambasciata ecuadoriana a Londra a bordo di un furgone che l’avrebbe portato in salvo in un altro Paese, probabilmente la Russia. Il piano era stato disegnato dall’ex console ecuadoriano a Londra Fidel Narvaez, e fu abbandonato a pochi giorni dalla scadenza, perché nel frattempo le autorità inglesi si rifiutavano di riconoscere l’equivalenza diplomatica delle credenziali che il governo ecuadoriano intendeva rilasciare. Senza un vero lasciapassare, la fuga sarebbe stata troppo rischiosa.
Il legame tra Assange e il Cremlino è oggetto di inchieste americane e non, da anni. Già nel 2010, poco prima che Wikileaks pubblicasse i video e di documenti forniti dal soldato Manning (oggi la transessuale Chelsea Manning) che mostravano l’uccisione accidentale di civili innocenti in Afghanistan, il giornalista aveva chiesto un visto per la Russia. Aveva nominato per l’occasione come suo procuratore Israel Shamir, un giornalista russo-svedese che aveva passato documenti fugati dal dipartimento di Stato di Washington, dalle mani di Assange a quelle dei media moscoviti.

Prima dell’ottobre del 2016 e della pubblicazione sul sito di migliaia di email dei leader democratici Usa, copie illegittime del registro degli ospiti uscite dall’ambasciata ecuadoriana a Londra mostrano la presenza di diversi cittadini russi, così come quella di Paul Manafort, ex direttore della squadra elettorale di Trump. Il dipartimento di Giustizia degli Usa non ha chiesto l’estradizione sulla base delle torbide vicende delle influenze russe nelle presidenziali. Lo ha fatto seguendo il filone delle email con le quali un funzionario anonimo di Wikileaks avrebbe istruito il soldato Manning a esplorare oltre i primi video militari, e a decrittare le password di accesso agli archivi del Pentagono. Per la giustizia statunitense quel funzionario è Assange, e da qui l’incriminazione per aver cospirato nell’atto di pirateria che è già costato a Manning una condanna a 25 anni, perdonata da Obama. Ma un eventuale udienza nel tribunale della Virginia con Assange estradato, non potrà ignorare le recenti vicende che hanno accostato la sua figura alla intelligence russa, e i due soggetti alle macchinazioni del Cremlino a favore dell’elezione di Trump. Il presidente ieri è rimasto insolitamente muto di fronte allo sviluppo della cronaca londinese, e interrogato su Wikileaks, da lui elogiata durante la campagna elettorale, ha risposto: «non so nulla, non la conosco». 
 

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