Antonia Klugmann: «No alle quote rosa in cucina, conta solo la meritocrazia»

Antonia Klugmann
Antonia Klugmann
di Rita Vecchio
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Venerdì 6 Marzo 2020, 07:15 - Ultimo aggiornamento: 20:23
Per Antonia Klugmann la cucina è creatività allo stato puro. Luogo di espressione dove interpretare in libertà. Chef stellata (una delle poche donne ai fornelli) - patron del ristorante L’Argine a Vencò, a Dolegna del Collio (Gorizia) sul confine sloveno - nominata nella sua carriera migliore Chef donna da Identità Golose e dalla Guida dell’Espresso. Bravura e ironia naturale: da ascoltare la sua storia è un piacere. 



Cucina: amore da subito?
«Difficile saperlo. Ho ricordi meravigliosi dell’infanzia, legati al cibo come condivisione. Se penso a mio nonno Antonio, di origini pugliesi, penso ai pomodori messi a maturare in veranda, alle alici crude con olio e limone, alle schegge di parmigiano a chiusura pasto. Penso alla nonna Klugmann, Marisa, dalla cucina emiliana e mitteleuropea di origine ebraica». 

Come si passa dai ricordi a farne un lavoro?
«Vedendo lavorare in tv i grandi chef. Ferran Adrià è stato un innamoramento a prima vista».

E poi in tv ci è finita lei. E pure come giudice di Masterchef. 
«Vero. Mi sono divertita tanto. La tv ha rappresentato per me un momento di crisi, ma anche di crescita e di cambiamento. È stato bellissimo. Mi ha messo davanti a dei punti fermi».

Il complimento più bello?
«Quando gente che mi ha vista in tv, mi dice che sono più carina dal vivo».

Come si arriva qui?
«Non c’è una strada uguale per tutti. La mia è stata anomala. Frequentavo giurisprudenza, andavo bene ma non sentivo la passione. Quando decisi di lasciare, professionisti mi dicevano che sarebbe stato impossibile per me diventare chef, che ero troppo vecchia e che non ce l’avrei mai fatta. Le difficoltà che si incontrano, ci fanno diventare più bravi».

Primi esperimenti?
«Quando non mi accontentavo di quello che mia madre lasciava a me e a mia sorella Vittoria pronto da riscaldare. Aprivo tutti i libri di cucina per sperimentare. C’era una specie di toast ripassato nel latte, impanato e fritto, che non mi veniva mai bene. Rido ancora». 

Un piatto di cui non farebbe mai a meno?.
«Gli spaghetti al pomodoro. In punto di morte, chiederei quelli. E quelli di mia madre un’icona per me. 

Difficile essere chef donna?
«La cucina non deve forzare le quote rosa. È un luogo meritocratico. Al cliente non interessa se sei bella, brutta, sexy, donna, uomo. Siamo in divisa e tutti uguali. Conta saper cucinare. È vero, però, che rappresenta lo specchio della condizione della donna in una società che ha ancora tanto culturalmente da fare. Certo, gli orari di lavoro non sono favorevoli. Ed è vero pure che, quando entri in una stanza e sei l’unica donna, facile non è. Io, dal canto mio, ho sempre voluto partecipare al gioco, in competizione con gli uomini». 

Come riassume la sua cucina?
«Come dicono i miei clienti: è l’espressione più sincera di me». 

E cioè?
«Evito l’inutile, mi metto in relazione intima con l’ingrediente. Senza orpelli». 

Chiuda gli occhi e immagini il suo futuro. Cosa vede di nuovo? 
«La parte più antica del mulino, ristrutturata. Orto e frutteto, ingranditi. Sono cose semplici. Ma fucina di idee, di bellezza, di campagna. E immagino di continuare ad ascoltare musica mentre cucino. Pensi a come si cambia: fino a poco tempo fa, ai fornelli non volevo sentire volare una mosca».
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