Riforme, il vicepresidente della Consulta: «Costituzione “solidale” troppo spesso disattesa Autonomia, decisivi i Lep»

Il vicepresidente della Corte Costituzionale oggi è a Lecce ospite in Provincia a un evento organizzato dall’Unione giuristi cattolici italiani Focus sul ruolo della Carta fondamentale, sulle riforme, sui valori di solidarietà

Giulio Prosperetti
Revisioni, senza rivoluzioni. Perché in fondo la Costituzione «si potrebbe far funzionare così com’è», innanzitutto applicandone...

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Revisioni, senza rivoluzioni. Perché in fondo la Costituzione «si potrebbe far funzionare così com’è», innanzitutto applicandone l’impostazione solidaristica. Alle riforme però la strada non va mai sbarrata pregiudizialmente, spiega Giulio Prosperetti, vicepresidente della Corte costituzionale. Che mette in guardia: «Il dibattito è sempre un po’ specioso e demagogico».

Spesso incappiamo nel rischio di sottovalutare, o perlomeno di dare per scontata, la centralità della Costituzione italiana. Tra “passaggi in officina”, applicazione effettiva, Costituzione formale e materiale, qual è lo stato di salute?

«Viene molte volte definita “la Costituzione più bella del mondo”, ma è sempre più spesso disattesa: l'impostazione solidaristica fatica a essere attuata. Abbiamo disuguaglianze, problemi del lavoro e della parità di genere, o problemi nell'assistenza, nella giustizia, nelle carceri. Pensi solo al caso delle Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza detentive, ndr) per i condannati che hanno problemi psichici, e che spesso non ci sono: c'è un migliaio di persone che non ha trovato assistenza nelle Rems, e che sono a spasso. Non farei una celebrazione asettica della Costituzione, insomma».

C'è un confine sottile tra riforme della Costituzione e stravolgimento della stessa, tra corpo vivo del dettato costituzionale e necessità di sintonizzarlo sulle necessità del tempo. Come si concilia tutto?

«La Costituzione non ha bisogno di essere riadeguata, si potrebbe far funzionare così com’è. Certo, tutto è perfettibile e non possono esserci mai preclusioni di principio rispetto alle modifiche costituzionali».

Ci sono stati più tentativi, spesso falliti, di riforma organica. Ora ci riprova il governo Meloni, la novità di punta sarebbe il premierato, e il dibattito si infiamma. Cosa gliene pare del confronto pubblico su questa ipotesi di riforma?

«Il dibattito è sempre un po' specioso e condizionato dalle contingenze elettorali. Anche la Commissione D'Alema aveva avanzato proposte simili a quelle formulate oggi. Ma il confronto pubblico è sempre purtroppo un po' demagogico».

C'è il rischio, in termini generali, di compromettere l'equilibrio dell'architettura costituzionale, che disegna un ordinamento col baricentro nel Parlamento?

«Non le posso rispondere nel merito perché la Corte costituzionale potrebbe essere anche interpellata su questa riforma. Salvo i principi fondamentali, la Corte può giudicare anche sulle leggi di riforma costituzionale».

Il tema è trasversale alle diverse fasi, ed è quello della centralità del Parlamento o del Governo, in una sorta di dualismo tra rappresentatività dell'uno e stabilità dell'altro.

«Che il Parlamento in questa fase sia depotenziato, è sotto gli occhi di tutti. Ma è un problema molto complesso, legato alle leggi elettorali. Si discute spesso delle dimensioni dei collegi, io ricordo che – quando sono stato candidato nel 1994 al Senato – nel collegio assegnato mi veniva posta una serie di questioni, e rispondevo che erano di competenza della Regione, o della Provincia, o del Comune: nessuno mi ha posto problemi su giustizia, scuola, difesa, temi cioè che dovrebbe affrontare un parlamentare. Eleggiamo persone che riscuotono la fiducia in un piccolo territorio e che poi vengono assegnate a commissioni parlamentari in molti casi non confacenti alla preparazione dei singoli soggetti».

Il solito quesito: chi rappresenta cosa?

«Il punto è sempre quello: il parlamentare deve rappresentare gli interessi del proprio territorio o deve essere portatore di interessi nazionali specifici? Insomma, il cittadino, nella scelta del parlamentare, deve aver riguardo a interessi localistici o a scelte che implicano problemi fondamentali per il Paese?».

Lei dice che il Parlamento ha da tempo perso centralità. La radice è profonda, ma qual è?

«Ormai i parlamentari vengono assegnati spesso a collegi con i quali loro non hanno mai avuto un rapporto. Questo fa sì che i cittadini, specie nei grandi centri, non ricordino nemmeno i nomi dei propri rappresentanti».

Come si conciliano rappresentatività e leggi elettorali?

«Non è facile. Se si ripristinano le preferenze, c'è il rischio – segnalato da taluni – che aumenti il clientelismo. E, del resto, senza preferenze resta la designazione da parte del leader. È un equilibrio complesso, in passato ho sostenuto che si sarebbero potuti disegnare dei collegi di grandi dimensioni e dove i candidati avrebbero potuto confrontarsi con dibattiti pubblici e televisivi sui problemi del Paese».

Ci sono più esigenze sul piatto, ora poste dall'attuale governo: la stabilità dei governi, la possibilità per gli elettori di scegliere il premier, la credibilità internazionale spesso minata dai continui cambi a Palazzo Chigi, e poi la necessità di non intaccare il ruolo del Parlamento che deve rispecchiare la volontà elettorale. Spinte diverse, a volte opposte. Ma il punto di bilanciamento?

«Garantire la stabilità dei governi è senz’altro un valore. Il problema della stabilità però va visto in una duplice chiave: non c'è niente di peggio di un governo formalmente stabile, ma che ha perso la sostanziale fiducia dei cittadini».

Altro fronte caldo è l'Autonomia differenziata, prevista dalla Costituzione dopo la riforma del titolo V del 2001 e ora chiesta da alcune Regioni. C'è il rischio di accrescere i divari Nord-Sud?

«Dipende tutto dai Lep, i livelli essenziali delle prestazioni. Di per sé l'autonomia differenziata non è né buona e né cattiva, dipende tutto da come lo Stato decide di modularla. Spesso, nel nostro sistema c’è un insufficiente apporto solidale: se non si risolve, l'autonomia rischia di accentuare i divari e la mancanza di solidarietà. Se però lo Stato garantisse le prestazioni minime in modo uniforme, non ci sarebbero controindicazioni».

In ogni caso, siamo un Paese che deve fare i conti con gravi e radicati gap, di qualsiasi natura.

«Il vero dramma sono la denatalità e la fuga dei giovani all'estero. Tutti i governi non sono stati in grado di affrontare seriamente il problema. Così come per la discriminazione di genere: le donne sono discriminate perché non sono aiutate, all'estero è possibile fare l'avvocato pur avendo cinque figli, qui mi è capitato di vedere professioniste in Cassazione che spingevano la carrozzina perché non avevano idea di dove lasciare il bambino».

Le Europee sono alle porte e si riaffaccia la riflessione, non disgiunta da quanto fin qui detto, su una più pronunciata integrazione istituzionale europea. Magari verso gli Stati uniti d'Europa: è questo lo scenario?

«Non c'è dubbio: l'Europa se non si coordina non potrà competere con gli altri grandi protagonisti mondiali. Solo un'Europa coesa potrà dire la sua. Il punto è che da noi le elezioni europee sono considerate di serie B rispetto alle politiche, all'estero invece accade il contrario, in alcuni Paesi le candidature sono accompagnate dalle rispettive e specifiche competenze».

Professore, lei è stato ordinario di Diritto del lavoro. In Puglia e in Italia si continua a morire di lavoro: è un'emergenza senza fine.

«È un problema purtroppo mondiale. Mancano risorse per gli ispettori del lavoro che facciano rispettare le norme, ma indubbiamente c'è una certa arretratezza, anche culturale, se si pensa che gli appalti si vincono giocando anche sul costo del lavoro».

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Quotidiano Di Puglia