In sessantasette anni l’Italia ha cambiato completamente la sua fisionomia. Per certi aspetti ha cambiato anche identità. La mutazione antropologica vaticinata da...
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Si è detto tutto il bene e tutto il male che si poteva dire, dunque. Continuare a farlo non sarebbe neppure divertente. Il festival ha visto cominciare e finire molte cose. Ma è rimasto lì. Come una figura sulla facciata di una chiesa barocca. Bella o brutta secondo il gusto di chi la guarda. Immobile, indifferente a tutto quello che accade e che passa. Bella o brutta, ma alla quale comunque si rivolge uno sguardo, con la consapevolezza che si tratta di qualcosa che appartiene al passato, che non vuol dire in alcun modo che poi sia necessariamente peggiore di qualcosa che appartiene al presente. Che il festival appartenga al passato, probabilmente è indiscutibile.
Non saprei se qualcuno ricorda, così, senza stare a pensarci più di tanto sopra, chi ha vinto Sanremo l’anno scorso, chi lo ha vinto due, tre anni addietro. Ricordano tutti che una volta ha vinto Mimmo Modugno, ricordano la canzone con cui ha vinto. Lo sa anche chi ancora non c’era, perché lo ha appreso dal racconto popolare. La grande narrazione sociale di Sanremo si ferma alla fine degli anni Ottanta. Fino a quel tempo il festival fa parte della storia del costume, dopo quel tempo non più. Dopo quel tempo è diventato soltanto una delle tante rappresentazioni della ripetizione della storia. Ma non si stratifica, non si trasforma in memoria. È immobile e indifferente, come la figura sulla facciata barocca. La gente la guarda ma essa non guarda la gente. Sanremo è così. Ripropone continuamente e anche coerentemente se stesso. La gente lo guarda ma Sanremo non guarda la gente. È indifferente a tutto quello che accade intorno, non si lascia condizionare da niente. È una passerella di canzonette e di cantatori che in taluni casi salgono sul palco da sconosciuti e ne scendono da sconosciuti. Sono solo canzonette, che possono essere belle o brutte, stupide o intelligenti, raccontare di papaveri e papere, colombe bianche che volano, felicità e mamme, lacrime e casette in Canada, oppure delle morti bianche come fece Anna Identici nel Settantadue con “Era bello il mio ragazzo”. Non un capolavoro ma un’espressione di sensibilità.
Abbiamo sempre accusato il festival di disimpegno. Ma forse la condizione che ha consentito a Sanremo di resistere a tutto, è stato proprio il disimpegno, è stata proprio l’indifferenza nei confronti di quello che potrebbe essere definito come attualità.
Perché diversamente non si spiega come mai abbiamo continuato a guardare il festival. Non si spiega come mai dopo trenta, quaranta, cinquant’anni, non si sia pensato di dire basta.
Forse la spiegazione è che gli italiani vogliono ancora il festival. Non si chiedono quanto costa e quanto lo pagano. Forse gli italiani guardano Sanremo per poter provare per qualche ora l’illusione che questo Paese possa ancora permettersi il lusso di cantare. Forse gli italiani vogliono ancora il festival perché vogliono avere nostalgia di com’eravamo. Perché forse eravamo migliori. Leggi l'articolo completo su
Quotidiano Di Puglia