Visto che, dopo il flop del mega accordo sul Tedescum, le elezioni sembrano allontanarsi, il tema delle alleanze è tornato a girare a vuoto. O meglio, in quello spazio...
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È uno scenario che fa molta gola a un ampio spettro di nomenclatura. Da coloro che, nel centrodestra, vorrebbero porre un argine all’ascesa lepenista di Matteo Salvini. A quelli che, nel centrosinistra, non vedono l’ora di riuscire a mettere la mordacchia a Renzi. Trasformandolo da aspirante premier a segretario dimezzato. Ma si tratta di due obiettivi raggiungibili? E, per giunta, con la collaborazione dei due diretti interessati?
Nel centrodestra, almeno sulla carta, la soluzione appare più semplice. Se il modello da seguire è quello ligure, ci sono almeno due leader che potrebbero candidarsi a riunificare il centrodestra. Uno è lo stesso Toti, che sta acquisendo peso e prestigio. E che ha continuato a dialogare molto intensamente con la Lega anche quando il Cavaliere aveva scelto di andare allo scontro frontale. L’altro è il governatore del Veneto. Un leghista talmente moderato che si troverebbe a proprio agio addirittura nella prima repubblica. Certo, in entrambi i casi, il primo ostacolo da superare sarebbe convincere Berlusconi a fare il fatidico passo indietro. Un obiettivo molto facilitato se non arrivasse da Strasburgo la sentenza di riabilitazione. A quel punto, resterebbe comunque lo scoglio di Matteo Salvini. Che, tuttavia, potrebbe accontentarsi di diventare, in caso di vittoria, il king-maker del nuovo esecutivo. Diciamo che i bookmaker di Londra darebbero questo scenario cinque a uno. Molto improbabile, ma non impossibile.
Le cose, nel centrosinistra, appaiono – ancora – più complicate. In questi giorni si fa un gran parlare della tela che Romano Prodi starebbe tornando a tessere. E si fanno facili battute sui programmi di duecento pagine che conterebbero più di un tweet. Ma se è certo che i tweet non bastano a vincere un’elezione, c’è ancora qualcuno disposto a credere che sia sui programmi che i dalemiani hanno rotto con Renzi? O che ci siano, nel campo progressista, obiettivi inconciliabili con quelli che il Pd oggi persegue? Certo, su questo o quel tema è inevitabile che ci siano diversità di vedute. Ma non certo tali da impedire di stare insieme sulla stessa barca. Ciò che rende oggi improponibili le vecchie alleanze della Seconda Repubblica, è lo stesso nodo che le fece funzionare vent’anni fa. Il nodo della leadership.
La Seconda repubblica, col suo fragile bipolarismo, nacque grazie alla forza aggregatrice di Silvio Berlusconi. Che mise insieme il centrodestra costringendo alla convivenza il diavolo e l’acqua santa, cioè la Lega scissionista di Bossi e l’Alleanza nazionalista di Fini. Sfruttando – non dimentichiamolo – oltre alla propria straordinaria capacità di attrazione egemonica anche un sistema elettorale – il Mattarellum – che costringeva, sui territori, a coalizzarsi. Per converso, cioè per fronteggiare il Cavaliere, Prodi riuscì a mettere insieme le tante anime della sinistra. Anche se fu un’Unione ballerina, che non gli consentì mai di esercitare una vera azione di governo. È pensabile ripetere oggi quello schema, senza la minaccia incombente di un centrodestra unito? E, soprattutto, con l’obiettivo – neanche tanto nascosto – di mettere fuorigioco Renzi, l’unico leader di qualche peso che il centrosinistra si ritrovi?
Per tre anni – ininterrotti - la sinistra è riuscita a reggere il governo del paese. Ed è stato possibile soltanto grazie a un premier che ha imposto la sua linea a un coacervo di forze abituate a scannarsi senza quartiere. Con tutta l’attenzione - e il rispetto – per la tela che il Professore starebbe provando a imbastire, senza affrontare il nodo della leadership si tratterà di una tela di Penelope.
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Quotidiano Di Puglia