In una recente intervista apparsa sul Nuovo Quotidiano, nel rispondere ad una domanda del giornalista sostenevo che se dal punto di vista tecnico/giuridico la riforma...
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Mai avrei chiamato in causa Berlinguer. Tale allusione, infatti, non solo richiama il diverso contesto nel quale il leader della sinistra aveva invocato il monocameralismo, ma richiama altresì uno dei principi basici delle forme di governo: i pesi e contrappesi che non devono mai mancare in un Paese civile. I checks and balances statunitensi, infatti, sono l’abc del diritto costituzionale comparato che opportunamente si richiama quando il potere di chi governa tende ad eccedere e come tale va limitato.
Ciò detto, ritengo che da giuristi avveduti e non militanti dobbiamo anzitutto rispondere a due domande. La prima è questa: l’accentuata integrazione giuridica europea è tale da ridurre il potere di uno Stato membro di restrizione dei diritti e delle libertà dei suoi cittadini? E se no, esistono nel sistema italiano i richiamati checks and balances? Alla prima domanda, fatico a non rispondere negativamente: esistono margini notevoli di autonomia del potere legislativo italiano in questioni delicate, quali la materia penalistica e processual penalistica (proprio in questi giorni si dibatte sulla prescrizione) e quella inerente alle tasse ed alle imposte. L’Europa, infatti, ci obbliga a rispettare i parametri sulla rigidità, ma spetta agli Stati decidere a chi si toglie ed a chi si assegna qualcosa. In relazione, poi, ai checks and balances vorrei esprimere una considerazione preliminare: ha colto nel segno chi ha affermato, durante la discussione per l’approvazione della riforma costituzionale, che, poiché il Senato non è elettivo e non ha potere sulle questioni delicate, tanto valeva eliminarlo del tutto: riforma alla mano, infatti, l’eventuale dissenso del Senato è superabile dalla Camera in poco tempo. Vero è che tale regola è l’effetto del bicameralismo imperfetto.
Tuttavia il punto più delicato attiene alla legge elettorale. È doveroso infatti chiedersi se l’Italicum, per come è concepito, attribuisce il potere a chi ha un margine di rappresentatività accettabile come chiedeva la Corte costituzionale. È singolare constatare che la prima versione dell’Italicum assegnava il premio di maggioranza al partito o alla coalizione di partiti che raggiungeva al primo turno la soglia del 37%; in caso contrario, si sarebbe andati al ballottaggio assegnandosi il 51% dei seggi al partito o alla coalizione vincente indipendentemente dal quorum raggiunto. La versione dell’Italicum approvata dalla maggioranza renziana ha eliminato il riferimento alla coalizione ed ha assegnato le soglie di cui sopra alla sola lista e quindi al partito vincente. Pertanto, poiché difficilmente un partito raggiungerà da solo la soglia del 40% al primo turno, per acquisire il potere, sarà sufficiente vincere il ballottaggio anche con un quorum del 25/30%. L’esatto opposto, dunque, di quello che paventava Berlinguer; l’esatto opposto di quello che prevedono i principi -costituzionali su pesi e contrappesi; l’esatto opposto di quello che ha statuito la Corte costituzionale; l’esatto opposto, forse, di quello che dovremmo fare noi italiani. Se il Premier vuole evitare gli inciuci, può farlo con una riforma costituzionale e con una legge elettorale che diano stabilità, impedendo i ribaltoni ed i cambi di casacca. Non è difficile trovarla, basta chiederlo a giuristi non militanti. Leggi l'articolo completo su
Quotidiano Di Puglia