In questo primo scorcio del 2017 in tanti hanno scritto di rivoluzione, ispirati dal calendario della Storia. Si spende generosamente in tal senso anche il filosofo Giulio...
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La simpatia umana di Giorello però si indirizza verso quest’ultimo; una scelta idiosincratica che il filosofo dissimula con l’argomento etimologico, una delle parrucche più utilizzate nel teatro delle idee: ribelle viene dal verbo latino “rebellare”, cioè ricominciare la guerra, controbattere, rispondere ai colpi ricevuti dal nemico. Il ribelle è uno che si giustifica dicendo che non ha cominciato per primo, ma che ha intenzione di difendersi passando all’attacco. Ernst Jünger, ampiamente citato da Giorello, pensava al ribelle come al Waldgänger, letteralmente uno che si dà alla macchia per opporsi alla cosiddetta società civile, un po’ come il taglialegna russo Andrej Periboski. La rivoluzione, invece, sempre indossando la parrucca etimologica, è solo finto cambiamento, perché deriva da “revolutio”, che indica il ritorno di un pianeta alla propria posizione iniziale. Insomma, dietro ogni rivoluzionario ci sarebbe un conservatore, anzi un restauratore che torna all’origine, che guarda indietro invece che avanti.
La lettura di questa dotta conversazione fra Giorello e Donghi ci ricorda, a cento anni dalla Rivoluzione d’Ottobre, che in questa parte di mondo i ribelli piacciono più dei rivoluzionari. Il ribelle è un eroe romantico che salta sulle barricate, che oggi sono per lo più le barricate immateriali dei social network; il rivoluzionario appare invece un uomo d’ordine che attiva nell’opinione pubblica tutto un retropensiero sulle motivazioni non limpide che ne ispirano le azioni. In realtà, chiunque può definirsi ribelle, basta darsi alla macchia, come suggerisce Jünger; i rivoluzionari invece si caricano sulle spalle un progetto faticoso, che non si esaurisce in una dichiarazione di intenti.
In Italia abbiamo avuto più ribelli che rivoluzionari, e comunque si è trattato nella maggior parte dei casi di autodefinizioni, un po’ come quando il giovane Celentano cantava “Io son ribelle, non mi piace questo mondo che non vuol la fantasia / Io son ribelle nel vestire, nel pensare e nell’amar la bimba mia”. Un raro esempio di rivoluzionario autentico, in campo artistico, è stato il regista Roberto Rossellini, e una sintesi del suo percorso può spiegare che cosa si intende per rivoluzione. Dopo aver realizzato nel 1945 un film che cambiò il corso della storia del cinema mondiale, “Roma città aperta”, Rossellini fu idolatrato al punto da diventare l’incarnazione assoluta della figura autoriale; invece di alimentare la propria immagine pubblica con film egocentrici, da lì in poi Rossellini lavorò alacremente per il superamento del Neorealismo e addirittura del cinema stesso, che riteneva già negli anni ’60 ormai un linguaggio a rischio di elitarismo. Pertanto intraprese un ampio, ambizioso progetto televisivo, con intenti pedagogici, frutto di un potentissimo sguardo sul mondo che includeva la storia dell’uomo, la filosofia, la geografia, la scienza: a questo si dedicò per tutto il resto della sua vita, abbondonando quel cinema che lo aveva idolatrato (ecco il ribelle), ma costruendo giorno dopo giorno lo scenario del cambiamento (ecco il rivoluzionario).
Nessuno ha seguito la lezione di Rossellini, perché essere rivoluzionari significa anche non poter tornare indietro, mentre i ribelli non disdegnano il ritorno all’ovile. Leggi l'articolo completo su
Quotidiano Di Puglia