Per una volta, proviamo a guardare in faccia la realtà dei partiti. Per quello che sono diventati. E non se rassomigliano o meno ai fantasmi del loro passato. Perché il problema...
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È stato così con Berlusconi, che ha messo fine alla stagione della partitocrazia notabiliare. Inventandosi una macchina da guerra – elettorale – che rimpiazzava il collante ideologico e le coalizioni spartitorie con la fedeltà incondizionata al capo. Il solo in grado di garantire il successo. È stato lo stesso modello tentato – e fallito – da Monti. E replicato, invece, con geniale innovazione da Grillo. Che ha conservato il pugno di ferro del controllo centralistico del Cavaliere, ma camuffandolo nel guanto di velluto della rete. Questo tipo di partito non piace ai lib-lab politically correct. Ma tant’è. In un quarto di secolo, ha dimostrato di essere il solo in grado di disciplinare il coacervo frammentato e balcanizzato del nostro ceto politico. Solo un forte partito personale è in grado di frenare le pulsioni all’autodissoluzione della folla di deputati e senatori lasciati in balia delle proprie sfrenate ambizioni.
Le ragioni di questa evoluzione non dipendono – come si racconta – dalle tendenze autoritarie dei leader. Nascono dal mutamento profondo dei circuiti comunicativi, sempre più personalizzati e incentrati sul carattere e l’appeal mediatico. E rispondono anche – e soprattutto – all’esigenza della democrazia decidente, al fatto cioè che gli elettori possano individuare qualcuno che si assume – senza se e senza ma – la responsabilità di scegliere. Questo Renzi lo aveva capito, e su questa novità dirompente – nel linguaggio e nei comportamenti – ha impostato la sua battaglia contro l’establishment del centrosinistra. Ma si è fermato a metà strada. A un certo punto ha creduto – si è illuso – di poter trapiantare il virus della leadership personalizzata sul corpo del vecchio partito. E – come succede spesso nei trapianti – dopo un miglioramento iniziale è partita una micidiale reazione di rigetto.
Oggi il nodo – che non è stato sciolto, anzi si è molto aggrovigliato – si ripropone. Sia nel rapporto interno con il partito di cui è stato confermato segretario (salvo – direbbe Orlando – referendum contrario). Sia in quello con il governo, presente e soprattutto futuro, le cui sorti – con la legge elettorale attuale – nessuno è in grado di controllare da solo. Renzi sembra si stia rassegnando a mettere in conto qualche altra – più o meno eclatante – scissione. Rilanciando sul terreno che ha finora più – e peggio – trascurato, l’innovazione dell’organizzazione interna che tagli le unghie alle correnti, e ai loro capibastone. Non sarà facile. Ma non ha alternative. Se lascia spazio ai suoi fratelli-coltelli, nel giro di pochi mesi si ritroverà in minoranza.
Ma, per quanto erta sia questa strada, ancora più difficile è quella per ritornare a Palazzo Chigi. Anche se Renzi dovesse riuscire a trasformare il Pd – a tutti gli effetti – in un partito personale, difficilmente riuscirebbe a raccogliere più di un quarto dell’elettorato. E sarebbe davvero un miracolo se dovesse arrivare a un terzo. Si tratterebbe di un risultato straordinario. Ma basterebbe ad aprirgli le porte di un governo di coalizione?
Oggi nessuno è in grado – tanto meno Matteo Renzi – di rispondere a questa domanda. Ma il segretario del Pd ha capito che, se ha ancora ha qualche chance di riuscirci, deve tirare dritto per la propria strada. Mettendo quanta più distanza possibile tra il suo partito rifondato e un esecutivo che appartiene, ormai, a un’era superata. Al centro della nuova era, quella che inizia dopo le prossime elezioni, ci saranno attori che oggi ancora facciamo fatica a intravedere. Ma è certo che non ci sarà spazio per il vecchio Pd.
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Quotidiano Di Puglia