Forse ha ragione Stefano Folli, quando dice che lo scontro con la minoranza Pd è diventato, per Matteo Renzi, un’ossessione. Ma è difficile che non andasse...
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Perché – come il premier è tornato a ribadire in tutte le salse – si può essere legittimamente in disaccordo su questo o su quell’aspetto tecnico dei quesiti referendari. Ma ad alzare i toni dello scontro, trasformandolo in una battaglia in difesa della democrazia, non sono state le opposizioni ufficiali. Forza Italia rimane defilata, e i grillini – almeno fino ad oggi – non hanno fatto i fuochi d’artificio di cui hanno dato prova in occasioni di ben minore rilievo. Il battage – e barrage - ideologico è stato interamente confezionato con gli argomenti – e il ceto politico-intellettuale – che sono stati per decenni il think-thank della sinistra storica. E che oggi si sente spodestato dal nuovismo di Matteo Renzi. Aggravato dalla capacità di imporre – per la prima volta nella storia repubblicana – una leadership forte al suo magmatico schieramento.
Se questo è, dunque, il nodo da sciogliere, sarebbe stato francamente impossibile fare finta di non vederlo, proprio davanti a quei militanti che sono in marcia da cinque anni per rottamare la vecchia classe dirigente. E che difficilmente si fermeranno, anche davanti a una sconfitta del Sì. Perché, se c’è un segnale che Renzi sta lanciando – e consolidando – in questi giorni, riguarda proprio il futuro del partito. Più diventa incerto l’esito dello scontro referendario, più si fanno imprevedibili gli sviluppi della crisi di governo cui Renzi – in prima battuta – andrebbe incontro se dovesse prevalere il No. Più appare, invece, saldo il controllo che il segretario ha sul proprio partito, e che continuerà a mantenere anche in caso di una battuta d’arresto il 4 di dicembre. Il ritorno al suo fianco di Richetti – uomo simbolo del renzismo dal basso, quello che aveva messo il vento della passione e partecipazione di massa nelle prime e nelle seconde primarie. E la tregua siglata da Cuperlo, in cui si riconosce un’area politica che non ama il renzismo ma rifugge, ancor più, da un ritorno al passato. Sono la conferma che non c’è alcuna leadership di spessore carismatico che pensa, oggi, di sostituirsi al premier. E Renzi, pragmaticamente, è passato all’incasso di questa compattezza ritrovata tra le personalità di maggior spicco della sua generazione politica.
Del resto, questo è anche l’unico segnale che al premier interessa inviare a chi ancora è indeciso sulla scelta pro o contro la grande riforma. Quale che sarà il risultato, il boccino sarà ancora in mano a Renzi. Un Renzi rafforzato e galvanizzato, nel caso di vittoria. Ma, nel caso di sconfitta, tutt’altro che emarginato. Perché l’Italia dei gattopardi, contro cui il Premier si è scagliato, è priva di un collante politico, per non parlare di una visione comune, e alternativa, del futuro del paese. E sarà questo, inevitabilmente, il banco di prova di quanti oggi riescono a coalizzarsi nell’impresa di spodestare Renzi. Ma, domani, non avrebbero alcuna capacità di intesa in parlamento, e ancor meno nell’urna. L’appuntamento cui, prima o poi, Renzi sa di poterli aspettare. Alla guida dell’unico partito ancora in grado di offrire agli italiani un orizzonte di governabilità.
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Quotidiano Di Puglia