Purtroppo, siamo solo all’inizio. Per chi si fosse voluto illudere che la scissione ormai conclamata facesse calare il sipario sulla faida-telenovela che ci ha assediato in...
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La prima è quella di cambiare strategia, abbandonando i toni concilianti e prendendo atto che non c’è – non c’è mai stata – alcuna prospettiva di ricomposizione. Se non quella di posare – più o meno metaforicamente – il capo sul ceppo. In questa chiave, ha ragione Biagio De Giovanni quando parla di un nuovo inizio e di un nuovo Pd. Renzi, oggi, non ha alcun interesse a rimarcare la continuità, peraltro con un’esperienza che aveva mostrato fin dagli esordi i suoi limiti culturali ed ideologici. E che aveva l’unica ragion d’essere nel tentativo – tardivo – di rispondere con un partito maggioritario alla schiacciante egemonia berlusconiana. Era questo l’imprint veltroniano – l’unico disegno strategico nel ventennale letargo post-comunista e post-democristiano – ed era a questo elemento propulsivo che Renzi si era abilmente agganciato. Cercando di farlo sopravvivere con il combinato disposto dell’Italicum e della riforma costituzionale. Sempre per la stessa ragione, questo era diventato il terreno dello scontro fratricida e frontale con l’oligarchia della Ditta, cresciuta nella bambagia consociativa del proporzionale e fermamente intenzionata a tornarci. Un obiettivo che - almeno al momento – sembrerebbe a portata di mano.
Proprio per questo, però, a Renzi converrebbe accelerare sulla discontinuità, su una svolta netta col passato. Anche a costo di perdere per strada qualche altro pezzo di nostalgici. Ma col vantaggio di mettere subito i suoi sfidanti ufficiali di fronte a uno spartiacque: se scegliere il dialogo, magari sottobanco, con le illusioni del Novecento, o se accettare con coerenza e coraggio le sfide di questo Millennio. Che poi, tradotto in politichese, significa scegliere tra le sirene della rappresentanza e la responsabilità del governo. Il punto più rilevante di rottura dell’ex premier rispetto al passato non era tanto consistito nella – fin troppo sbandierata – rottamazione. Un termine che, per giunta, non sembra avergli portato bene. Ma nel fatto di avere dato all’Italia – primo caso in settant’anni di repubblica – un presidente del Consiglio che aveva scelto Palazzo Chigi per - provare a - riformare il paese. L’unico leader italiano ad avere anteposto il ruolo – e il linguaggio – istituzionale a quello di segretario di partito. Paradossalmente, ma non troppo, la autocaduta di Renzi è coincisa con l’abbandono di quella innovazione. Cessando di essere un premier super partes e rinchiudendosi nella particina di tribuno di una fazione referendaria.
Per riconquistare l’abbrivio e l’autorevolezza di una visione governativa capace di convincere e mobilitare, l’ex-segretario non ha molto tempo. E ha molti meno amici di ieri. Avrebbe pur sempre – non va dimenticato – quell’esercito di votanti che, appena tre mesi fa, gli aveva dato fiducia. Una fiducia molto personale – come i suoi avversari non hanno smesso di rinfacciargli. Ma che, proprio per questo, è una riserva che potrebbe essere riattivata. A condizione che Renzi riesca a dimostrare – a se stesso e al paese – che siamo entrati in un’altra era. In cui, a voltarsi indietro, si rischia di fare – tutti – la fine di Orfeo.
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Quotidiano Di Puglia