Pd: il Paese si aspetta che la farsa finisca

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Perché? La domanda degli elettori e di tantissimi cittadini di fronte alla telenovela del Pd è di incomprensione. Ma davvero ce n’era bisogno? Proprio non si poteva evitare? E, soprattutto, perché lo fanno, perchè si stanno dividendo? A questi interrogativi – sacrosanti – non c’è una risposta semplice. Di quelle, cioè, che appartengono al cosiddetto senso comune, i problemi con cui ogni giorno ci scontriamo, e vorremmo che fossero il pane quotidiano dei nostri rappresentanti politici. Ma i politici – ci piaccia o meno – fanno un altro mestiere. Il loro. Devono, mattina e sera, pensare alla propria carriera, occupazione e – in qualche caso – sopravvivenza. Ed è un bene che sia così. La democrazia nasce proprio quando i politici di professione prendono il posto di una aristocrazia che, avendo altro di cui campare, era del tutto indipendente. I nostri parlamentari, invece, dipendono dai nostri voti. E devono guadagnarseli, se non vogliono ritrovarsi disoccupati. Il problema della scissione Pd, brutalmente, è tutto qui. Con la doppia bocciatura del referendum e dell’Italicum, il mercato dei voti – le regole che fanno incontrare domanda e offerta – è cambiato. In tre aspetti fondamentali.


Il primo – ed è il più importante – è che è venuto meno il controllo monopolistico del partito – e del suo segretario – sulla allocazione dei seggi. Fino alle ultime elezioni, il formato maggioritario della competizione penalizzava fortemente chi stava fuori dai partiti maggiori. L’Italicum, col ballottaggio, aveva cercato di preservare questo meccanismo. Con la legge attuale, invece, siamo tornati alla ripartizione proporzionale dei seggi. Basta superare il tre per cento, e si conquista l’ingresso alla Camera. A questo punto, il singolo parlamentare, per decidere dove gli conviene stare - se nel vecchio partito o in uno nuovo – deve esaminare i fattori – e i numeri – della competizione. Dove ha maggiori chance di successo?

Qui veniamo al secondo cambiamento, la torta complessiva dei seggi che si è notevolmente ristretta. Senza il premio di maggioranza del porcellum, la battaglia per farsi eleggere, nelle varie circoscrizioni, sarà asprissima. Tolti i famosi capilista nominati dall’alto, all’interno del Pd assisteremo, sul territorio, a un corpo a corpo feroce a botta di preferenze. Per gli oligarchi della ex-ditta, è molto meglio tirarsi fuori, e distribuirsi le risorse del nuovo partitino. Poche, forse, ma – come usa dire – sicure.

La terza novità è che – come D’Alema ha già più volte ripetuto – scindersi oggi nel partito non significa che non ci si possa ricongiungere, domani, nel governo. Certo, questa prospettiva, al momento, appare improbabile. Col sangue che sta scorrendo, e con quello che vedremo scorrere nelle prossime settimane, è difficile che si possa – a breve – arrivare a una qualche forma di alleanza. Ma in politica, mai dire mai. E chissà, potrebbe addirittura darsi che la somma dei due spezzoni produca – algebricamente – un risultato maggiore di quello che il Pd unito sarebbe riuscito a conseguire.


Questa è la realtà – dura – dei fatti. Ci si può scandalizzare, invocando – ipocritamente – il richiamo a valori superiori, cui i politici sarebbero tenuti a improntare le loro scelte. Ma nessuno di noi accetterebbe a cuor leggero di perdere il lavoro (soprattutto, poi, di questi tempi). E non si capisce perché dovremmo poterlo pretendere da Speranza o da Gotor (o dai peones renziani che, se vanno via gli scissionisti, avranno un po’ di competitor in meno). Quello che, invece, si dovrebbe pretendere è che si mettesse fine, il più rapidamente possibile, alla farsa cui stiamo assistendo, ormai, da troppe settimane. E che c’è il rischio che continui a tediarci per chissà ancora quanti mesi. No, non è un dramma che il Pd si spacchi. Non stiamo mettendo a repentaglio un grande patrimonio ideologico. Quei mondi se ne sono già andati, e seppelliti, un quarto di secolo fa. Si sta riorganizzando una casa, peraltro alquanto sgarrupata, della democrazia italiana. Alcuni vecchi arredi vanno via (con un pizzico di nostalgia). Forse entrerà un po’ d’aria nuova. Si vada avanti con i lavori. E li si chiudano il più in fretta possibile. In modo da tornare a occuparci di quello che davvero conta. Chi e come governerà l’Italia. La Seconda repubblica è finita. È ora che cominci la Terza. Leggi l'articolo completo su
Quotidiano Di Puglia