Siamo in un’epoca post-ideologica. Se qualcuno lo avesse dubitato, la vittoria dei grillini all’insegna «né di destra né di sinistra» ne...
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Nasce qui, in questo frame mediatico alla chlorodont, il mix di sconcerto e confusione con cui l'establishment cosiddetto colto non reagisce alla propria impotenza. Abituati a centellinare le parole, misurare coi decimali i numeri, aspettarsi pavlonianamente una reazione a qualunque anche timida azione, restano sbalorditi e ammutoliti di fronte all'impudenza e incoerenza dei vincitori. Gli homines novi che possono dire ciò che vogliono. Senza che vacilli di un centimetro il consenso nell'elettorato. Anzi, facendolo aumentare. Ieri sul Messaggero Luca Ricolfi ha spiegato perché a dispetto dei proclami di Conte non ci fosse alcun coraggio nel fatto di esporre il paese e i suoi abitanti al rischio di un'ecatombe finanziaria. Ma non meno importante è notare che il rischiosissimo disavanzo triennale al 2,4% fosse comunque inferiore a quello quinquennale prospettato da Renzi soltanto un anno prima e addirittura al 2,9. Così come, visto in prospettiva storica, l'ampliamento della spesa pubblica tranne la parentesi di Monti ha riguardato tutti i governi, di centrodestra e centrosinistra.
I gialloverdi stanno accelerando un po', ma certo non si può dire che si tratti di una drammatica inversione di rotta rispetto a una austerità mai esistita. Il che significa sostanzialmente due cose. Che c'è almeno nella quantità della spesa molta più continuità che rottura con gli esecutivi precedenti. E che la contrapposizione all'Europa è piuttosto un'operazione simbolica, la dichiarazione anche a parole di una sfida che, fino a ieri, era rimasta latente. Ma che era destinata inesorabilmente a esacerbarsi. Certo, poi si apre il dibattito su come i soldi vadano investiti. Ma, negli orientamenti di base, i due partiti al governo appaiono molto meno rivoluzionari di quanto loro stessi e i loro avversari vorrebbero - farli - apparire.
Se le cose stanno così, la terza repubblica assomiglia molto più alla prima di quanto convenga ammettere ai protagonisti. Dall'una come dall'altra parte. Con la fondamentale differenza che ai gialloverdi non importa granché. Col monopolio della comunicazione che si sono merito loro conquistati, possono chlorodont dire quel che vogliono. Nel peggiore dei casi si beccano qualche confutazione puntigliosa che circolerà nella cerchia sempre più ristretta delle vecchie élite. Le quali, dal canto loro, ancora non sono riuscite a elaborare il lutto della propria sconfitta. Continuano a ripetere il mantra che l'esecutivo populista sta portando il paese nel baratro. Ma non possono certo augurarselo. E se, invece, non dovesse succedere? Se questo fosse solo l'inizio maldestro più che sinistro di una nuova stagione politica?
È la tesi di Popolocrazia, il libro di Diamanti e Lazar (editrice Laterza) in cui c'è l'analisi impietosa di come siamo arrivati a questo punto. Di come il populismo sia riuscito a incunearsi nella democrazia, diventandone il nuovo demone. E la nuova forma di governo. Certo, con molti tratti illiberali. Decretando probabilmente il tramonto del regime che fino a ieri chiamavamo liberaldemocratico. E mettendo al suo posto una sorta di democrazia assoluta. Totalitaria. Che ha un merito fondamentale. Provare a riconciliare, riconnettere i governati con i governanti. Sanando almeno in parte la frattura drammatica che si era creata. Ma con un rischio, potenzialmente fatale. Che il prezzo da pagare sia alto, troppo alto. Così alto da far fallimento. La popolocrazia diventerebbe lo stadio supremo della democrazia. E anche l'ultimo.
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Quotidiano Di Puglia