La crisi e le narrazioni: quella strana abitudine a non concludere

Ulisse e Circe (Jan Van Bijlert)
Viviamo in un’epoca in cui le narrazioni non chiudono, rimandando il finale della storia a data da destinarsi. La narrazione della crisi, per esempio, non ha fine, e con...

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Viviamo in un’epoca in cui le narrazioni non chiudono, rimandando il finale della storia a data da destinarsi. La narrazione della crisi, per esempio, non ha fine, e con essa la crisi medesima. La progettualità politica, che fa largo uso della parola “futuro”, si confronta in realtà con un eterno presente. Un eterno presente in cui il momento della verifica del lavoro svolto non arriva mai, è sempre rinviato a un rassicurante domani.


Tra gli innumerevoli spunti di riflessione suscitati dal convegno internazionale “Culture ultime. Forme contemporanee dell’estremo”, tenutosi a Santa Maria di Leuca e Gagliano del Capo il 19 e il 20 aprile, un concetto del massimo interesse, su cui è bene continuare a ragionare, è quello di “conclusione”. L’intuizione teorica del curatore scientifico Matteo Greco è notevole: pensare un luogo geograficamente decentrato come centro di ricerca a vocazione multidisciplinare. L’esperimento ha funzionato: gli studiosi riuniti nella terra estrema del Capo hanno definito le narrazioni contemporanee verso il confine in tanti modi. Due fra gli eredi più accreditati di Umberto Eco hanno offerto una chiave interpretativa particolarmente stimolante. Pierluigi Basso, dell’Università di Lione, ha parlato di “avventura” come modello possibile di movimento attraverso il confine, facendo intendere che l’avventura dovrebbe raggiungere degli obiettivi, non procrastinarli a tempo indeterminato. Claudio Paolucci, dell’Università di Bologna, ha presentato un’immagine molto suggestiva, quella di stadio “penultimo”: c’è sempre qualcosa che ci separa dall’ultimo, un elemento intermedio che si rigenera senza che si possa giungere a una conclusione.

Questa falla o debolezza narrativa è tipica di una politica che Paolucci definisce “platonica”, cioè intrappolata in una griglia ideale di prescrizioni che non colgono il mutamento, il divenire, quello che stiamo chiamando “narrazione”. Nel dibattito seguito agli interventi, Stefano Cristante, dell’Università del Salento, ha introdotto, rispetto al concetto di “penultimo”, la figura della circolarità: non c’è un ultimo, passando al limite, ossia al confine, perché in quest’area di passaggio l’ultimo si salda con il primo, e la narrazione ricomincia. In tre passaggi (l’avventura, il penultimo, il cerchio), questi studiosi hanno individuato un problema e una via di fuga. La centralità della questione può essere compresa se si considera che oggi affrontare e risolvere un problema narrativo è come risolvere un problema matematico: non si tratta di un esercizio fine a se stesso, ma di un esito da cui nascono soluzioni multidisciplinari utili alla comunità.

Sembra di poter dire che la soluzione di Basso, Paolucci e Cristante è in Aristotele e in generale nella linea di pensiero che salda l’Etica Nicomachea, cioè una guida all’agire nel mondo concreto e non in quello delle idee, alla Poetica come schema delle trasformazioni narrative. Il racconto di una comunità ha un inizio, una parte di mezzo e un finale. L’inizio è un atto di fondazione, in cui si costruisce il mondo narrativo: non perfetto, anzi assolutamente imperfetto ed emendabile. Il secondo atto è il momento dei conflitti, quello in cui l’individuo mette alla prova la tenuta delle proprie convinzioni, dei propri valori, e scopre attraverso la relazione con l’altro che questi valori non sono più sostenibili. Il finale certifica che c’è stata trasformazione: sia per l’individuo che per la comunità, niente è come prima. Il processo narrativo (l’avventura) può ricominciare (il cerchio). Ma per ricominciare ha bisogno di giungere a conclusione, di non fermarsi al penultimo stadio.


Se prendiamo come punto di osservazione le serie televisive, che sono la più potente autorappresentazione della società contemporanea, ci accorgiamo che queste grandi narrazioni entrano in crisi nel momento in cui si trovano costrette a rinviare il finale: elaborano grandi storie con imponenti archi di trasformazione, presentano personaggi complessi in grado di rivaleggiare con il miglior cinema e la migliore letteratura, ma il sistema produttivo (l’economia) impone alla storia di successo di continuare. Poiché nella struttura aristotelica nel finale, nel “confine” dell’opera si afferma compiutamente il suo significato, ecco che le narrazioni sconfinate diventano fatalmente storie senza senso. I narratori contemporanei ci hanno dato dei meravigliosi Ulisse, che però non fanno ritorno a Itaca e si perdono nel Mediterraneo. Sentiamo invece sempre più urgente il bisogno di narratori che si prendano la responsabilità di concludere una storia, e aprirne una nuova.

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Quotidiano Di Puglia