Per lo spettatore italiano, vedere un film di qualsiasi provenienza e area linguistica in una sala cinematografica italiana implica tassativamente ascoltarne la versione nella...
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Non c’è mai stato un dibattito forte su questo argomento, ma proviamo a sintetizzarne le posizioni. I sostenitori del doppiaggio affermano che in fondo si tratta del male minore: leggere il sottotitolo distrae l’attenzione dallo schermo intero per focalizzarla su una sola parte, dunque fa perdere proprio lo specifico artistico del cinema, che è l’immagine; inoltre, paragonano il doppiaggio alla traduzione letteraria, anch’essa una forma di compromesso (“dire quasi la stessa cosa”, per citare Umberto Eco), universalmente accettata. I detrattori sostengono invece che togliere la voce a un attore è tradirne l’essenza, sarebbe come sostituire il suo volto; ricordano che il cinema è un’arte audiovisiva, in cui il sonoro conta tanto quanto l’immagine, dunque cambiare la voce di Marlon Brando nel Padrino equivale a sostituire la voce di John Lennon in un disco dei Beatles, mettendoci Gianni Morandi. Il doppiaggio poi è un particolare tipo di traduzione legata all’obbligo del sincrono labiale: una frase breve in inglese può richiedere una versione italiana più lunga, ma il doppiatore è costretto ad adattare la frase rispettandone la durata al millisecondo, anche se si sacrifica il senso. Senza addentrarsi in ulteriori considerazioni estetologiche, va constatato che nel 2017 andare in una sala cinematografica di Milano o di Lecce e vedere un film doppiato è più surreale che in passato, dati gli enormi cambiamenti dello scenario mediale.
Oggi sul web il pubblico più giovane guarda in streaming film e serie tv sottotitolati da comunità di appassionati. Non si tratta di nicchie poco numerose: lo dimostra il fatto che Sky sempre più spesso mette in onda le serie di punta del proprio catalogo in contemporanea con gli Usa, sottotitolando gli episodi in attesa della versione doppiata; fermo restando che sia le pay tv che le Ott come Netflix e Amazon propongono di norma l’opzione dei sottotitoli su tutti i prodotti. Ci sono poi altre nicchie, costituite dal pubblico adulto e acculturato che frequenta i festival, da Venezia a Specchia, ed è avvezzo alla fruizione delle versioni sottotitolate. Il circuito commerciale del cinema, rispetto all’avanguardia neo-televisiva e a quella dei festival, sembra arretratissimo, incapace di cogliere gli stimoli che arrivano da nuove fasce di pubblico. Non considerare affatto questi segmenti, soprattutto in prospettiva, la dice lunga sulla lungimiranza degli operatori di un circuito che non a caso fatica a sopravvivere. Leggi l'articolo completo su
Quotidiano Di Puglia