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«Dispiace che venga data un’immagine distorta delle imprenditrici, sono convinta che tante e tanti non la pensino come Elisabetta Franchi.
Quando le ho sentito dire che sceglie le manager over 40 perché non hanno più problemi di figli e famiglia sono inorridita. Da noi l’arrivo del bambino di qualche dipendente è salutato come una festa, profuma di futuro». Laura Rocchitelli, 55 anni, è ceo e presidente di Rold, l’azienda di famiglia con sede a Nerviano (Milano) che produce componenti per elettrodomestici: 257 dipendenti, di cui il 33 per cento donne, 48 milioni l’anno di fatturato.
Solo festa e nessun problema?
«L’assenza per maternità di una lavoratrice è un costo assolutamente sopportabile nella misura in cui si hanno dei valori. Crea qualche difficoltà, non lo nego, è difficile gestire i momenti di assenza di chi ha ruoli decisionali. Ma se il processo di delega è adeguato e ci si ricorda sempre che l’azienda è fatta di persone le difficoltà sono superabili.
Nell’azienda da lei guidata ci sono altre donne al vertice?
«Nei ruoli apicali ci sono uomini, ma non è una preclusione. Il nostro settore è prevalentemente maschile, abbiamo difficoltà a trovare nel mercato figure tecniche femminili. Gli ingegneri elettronici e informatici donne sono pochissimi. Ma qualche cambiamento lo vediamo».
Lei ha tre figli, come ha conciliato i due ruoli? E dopo quanto tempo dal parto è rientrata al lavoro?
«La famiglia per me viene al primo posto. Con il primo figlio ho preso una pausa di un bel pò di mesi, con gli altri ero già più organizzata e allenata. Se guidi un’azienda non puoi staccare in maniera totale. Ma sono convinta che nessuno debba essere disponibile 24 ore su 24. Mi hanno insegnato ad anteporre le persone, è vero che l’azienda per vivere deve fare profitto ma è fatta di persone. Se riesci a creare un ambiente dove c’è un senso di appartenenza paradossalmente puoi trovare enorme disponibilità. Quando sei attento alle persone e alle loro esigenze, stai sicuro che ti risponderanno anche la domenica se hai bisogno».
Come aiutare, secondo lei, le donne a entrare nel mondo del lavoro, a restarci quando diventano mamme?
«Il problema non sono tanto gli strumenti ma la cultura diffusa per cui è la mamma a doversi occupare dei figli. Le faccio un esempio pratico: abbiamo aggiunto un giorno extra al congedo di paternità ma nessun papà l’ha preso. È innanzitutto un cambiamento culturale quello che manca».
Che ruolo possono avere le aziende per abbattere i pregiudizi nei confronti delle mamme lavoratrici?
«Pochi direttori di produzione di aziende metalmeccaniche sono donne. Molti si chiedono: come possiamo affidare un impianto che deve andare avanti sempre a una lavoratrice madre che poi si assenta perché il bambino è malato? Io e la nostra HR manager non abbiamo di questi pregiudizi. Bisogna battersi per creare percorsi di crescita indipendentemente dal genere, basati solo sulle competenze. Mi accusano di essere materna in azienda, di essere troppo attenta al benessere dei dipendenti. Ma sono convinta che il mio atteggiamento da mamma faccia bene all’azienda. Nel 2020 abbiamo dovuto chiudere e fare la cassa integrazione per la prima volta. Tutti volevano da me parole di rassicurazione e di fiducia, nessuno si è tirato indietro. Il mio atteggiamento materno ripaga».
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