Filograna, l'intervista al nipote dell'uomo che creò l'impero: «Prima di morire mi disse avrai nemici e sarai solo»

Antonio Filogana Sergio con lo zio Antonio Filograna
Da Filanto a Leo Shoes e Manifattura Af, regno del lusso. Dal Cavaliere Antonio Filograna - di cui oggi ricorre il centenario dalla nascita - al nipote, Antonio Filograna Sergio,...

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Da Filanto a Leo Shoes e Manifattura Af, regno del lusso. Dal Cavaliere Antonio Filograna - di cui oggi ricorre il centenario dalla nascita - al nipote, Antonio Filograna Sergio, figlio della sorella, l’erede di un’esperienza custodita, rafforzata e resa ancora oggi fonte di sviluppo sociale e territoriale. Nelle sue parole gli eventi, le emozioni, le scelte e gli istanti che, nel solco di un rapporto umano profondamente complesso, nel tempo l’hanno scolpita. 

Filograna Sergio, tanti lo hanno definito “signore”, molti altri “padrone”: per lei chi è stato suo zio? 

«Prima di tutto un padre che mi ha insegnato a vivere spendendomi per gli altri e considerando l’aspetto sociale come qualcosa di fondamentale in tutto».


Cosa la costrinse a trasferirsi sin da bambino nella sua casa? 
«Negli anni ’60, la nostra era una famiglia allargata. I miei zii e i miei genitori vivevano praticamente insieme. Io ero il primo genito e, non avendo figli, gli zii chiesero ai miei genitori di potermi prendere in affidamento. E sin dall’età di 3 anni vissi con loro». 

Che rapporto avevate?

«Di rispetto ma anche di sudditanza. Col suo carattere avrebbe potuto assoggettare chiunque. In alcuni momenti ci siamo anche scontrati. L’ho sempre temuto, perché il suo modo di fare incuteva timore. Di base era un buono e generoso ma era anche un attore, quindi, gli piaceva inscenare reazioni plateali. L’azienda lo trasformava». 

Qual è stato il peggior rimprovero che ha subito? 

«Avevo 7 anni. Eravamo nell’azienda di via Maglie. Non ricordo cosa avessi fatto ma non potrò mai dimenticare che lo zio mi obbligò a inginocchiarmi davanti agli operai e a chiedere perdono. Per un bambino timido come me fu un trauma». 

Ha continuato a trattarla così anche da collaboratore? 

«È sempre stato duro. Nell’86, appena terminato il servizio militare, andai al mare. Ma, non appena misi piede in casa, me lo ritrovai davanti: “Hai finito il militare e sei andato a farti il bagno”, esclamò. “Da domani - s’impose - inizi a lavorare”. E io risposi “va bene”. L’indomani, però, mi presentai in fabbrica a Patù alle 11 e lui inferocito mi venne incontro urlando: “Domani alle 7 devi stare qui, perché tu devi essere il primo”. Non ho mai avuto la possibilità di scegliere per la mia vita, ma capì presto che la strada davanti a me era quella giusta. E oggi apprezzo il peso di quelle parole: il rispetto se lo vuoi, prima devi riconoscerlo». 

Ed era un uomo presente in famiglia? Andava a fare la spesa?

«No, la spesa mai. C’era Nenuccia, la tata, la donna che mi accudiva, pensava a tutto lei. Lo zio si sforzava di essere presente».

Cosa gli piaceva fare nel tempo libero? 

«Per le ferie invernali andavamo a Lugano. L’estate, invece, eravamo sempre all’Hotel Costa Brada, al punto che nell’83 decise di comprarlo. Quand’era a casa si chiudeva nello studio, si documentava o leggeva le lettere che riceveva. Amava ospitare la gente in casa: gli piaceva fare cene in concomitanza con alcune ricorrenze, invitare dipendenti, amici. Ricordo che all’epoca si organizzava la pentolaccia».

Qual è la persona più importante che abbia fatto visita a suo zio in casa?

«Fino a metà anni ’80 ha avuto un grande rapporto con l’ex sindaco di Casarano e deputato, Luigi Memmi: veniva sempre a pranzare con noi, faceva la sauna, il bagno in piscina. Ma casa nostra era un punto di riferimento per tutta la comunità locale. Poi molti incontri avvenivano a Milano, che per lui era la seconda casa: lì avevamo un ufficio di rappresentanza, 2 negozi e un albergo».

Cosa ricorda del 13 novembre 1980 quando Filograna fu rapito? Lei aveva 14 anni.

«Di sera arrivò una telefonata. Risposi. Era il ragioniere aziendale: mi chiese di passargli la zia. Ricordo solo il caos di giorno e le preghiere al tramonto. Casa si trasformò nel quartier generale dei carabinieri. Continuai ad andare a scuola. E quando a giugno le lezioni terminarono mi mandarono a Vigevano a casa di un nostro rappresentante, dove rimasi fino al 18 giugno quando lo zio fu liberato. Tornai il giorno dopo: era già in casa e lo riabbracciai. Aveva grandi difficoltà a muoversi, era magrissimo. Lo tennero per 8 mesi steso o in ginocchio in una tenda. Pensava che non sarebbe più ritornato, come scriveva sulle lettere che ci inviava. Quando fu liberato, ricevette 20 gettoni telefonici e non so quanti chilometri percorse prima di telefonare».

Come trascorse il periodo successivo?

«Subentrò un po’ di depressione. Di notte si svegliava di soprassalto perché, forse, riviveva il sequestro. Trascorremmo un periodo nella residenza di Otranto per stare sereni. Non voleva più lavorare. Poi, fortunatamente, riacquistò il suo vigore». 

E poco dopo decise per la sua carriera.

«Già prima di finire la scuola, gli dissi che volevo interrompere gli studi per lavorare. Lui acconsentì ma mi obbligò a finire scuola. Non avevo scelta, ma non sono stato costretto a entrare in fabbrica: l’ho scelto io».

Anche suo padre, Adelchi Sergio, era un grande produttore di calzature. Ma il rapporto si è presto deteriorato: perché?

«Mio padre si allontanò nell’80, poi con il sequestro si riavvicinò a mio zio, che era suo cognato, prima di riallontanarsi e ritornare nell’85, quando per motivi anche famigliari le strade si divisero definitivamente. Lo zio ha sofferto sempre molto quel distacco, perché fin quando non mi trasferì a casa sua vivevano insieme. Ancorché me, lo zio aveva, infatti, considerato mio padre come suo figlio: lo aveva accolto a Casarano, perché mio padre non voleva stare in Belgio dove mio nonno era andato a fare il minatore».

Come Sergio, anche Filograna a un certo punto delocalizzò le produzioni, con riflessi sociali nefasti. Condivise la scelta? 

«All’inizio mi occupavo del commerciale. C’erano mercati emergenti: Russia, Albania, India. Erano gli stessi clienti a indirizzarci in quei Paesi. Nel ‘96 Filanto era all’apice della sua performance, poi iniziò il declino ma per una serie di concause di ordine nazionale e internazionale. Mio zio credeva nelle sfide e ancor più nelle sue capacità. Era orgoglioso e testardo, ti ascoltava ma non te lo lasciava credere. Quando fu necessario licenziare migliaia di persone, però, era difficile consigliargli alternative. Lui era ottimista e ripeteva sempre “il mondo cambierà, perché ci sono sempre 7 anni di vacche magre e 7 di vacche grasse”. Ma così non fu». 

Filograna morì nel 2011 dopo l’annuncio della nascita di Leo Shoes, l’azienda attraverso cui lei sta ergendo il nuovo impero calzaturiero di Casarano nel segno del lusso garantendo lavoro a 1500 persone. Qual è il contribuito del Cavaliere a quel progetto? 

«Volevamo tornare a produrre in Italia e lui era cosciente che per farlo e per salvare il salvabile potevamo solo riconvertire, altrimenti saremmo morti. Fu l’unico momento in cui mi diede ascolto e mano libera. E forse avrebbe potuto farlo prima. Ma non è un rimprovero».

Con il patrimonio Filanto, le ha lasciato anche qualche “grattacapo”?

«Sì. Due giorni dopo il suo funerale, arrivarono le banche a chiedermi chi da quel momento in poi avrebbe garantito. E mi feci di carico di tutto, senza mai rinnegare quella scelta. Certo, ho attraversato anni non semplici, tra cartelle, cause e sequestri. I debiti erano tanti ma c’era anche un bel patrimonio, su cui poi è stato costruito un percorso. Prima di morire lo zio mi disse: “Sappi che sarai da solo e avrai tanti nemici”. E sì che aveva ragione. Così è stato. Mi sono fatto forza e sono andato avanti».

È il “patrimonio” il più bel regalo che suo zio le ha fatto?

«I suoi insegnamenti, l’educazione al rispetto. Poi, nel ’79 mi regalò il libro che aveva scritto ma, sinceramente, non l’ho mai letto perché la sua storia la conoscevo già, la raccontava ogni giorno».

E quello che non le ha fatto?

«Forse, per la grande differenza d’età che c’era, non si è mai interessato alla mia vita privata. E io avrei voluto raccontargliela. Ma, forse, anche per via della mia timidezza, avevo timore di farlo. Non mi chiedeva nulla, ma quando dovevo partire non si lasciava sfuggire l’opportunità di chiedere ai miei amici chi fossero e cosa facessero i loro genitori. Era il suo modo per rassicurarsi».

E se ora fosse qui davanti a lei, cosa gli direbbe?

«Spero che tu sia orgoglioso di me, e contento per tutto ciò che ho fatto per onorare le tue aspettative ed esaudire le tue speranze».

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Quotidiano Di Puglia