«Melanzana rubata: solo per sfamare il mio bambino»

«Melanzana rubata: solo per sfamare il mio bambino»
Voleva solo sfamare il suo bimbo piccolo. Stava passando un periodo particolarmente difficile e tra l’altro non era andato lì, dove poi era stato colto sul fatto,...

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Voleva solo sfamare il suo bimbo piccolo. Stava passando un periodo particolarmente difficile e tra l’altro non era andato lì, dove poi era stato colto sul fatto, appositamente per rubare una melanzana. Tutt’altro: era in cerca di legna per scaldare la casa. Solo che poi ha pensato al piccolo. E si è ritrovato in mano quella melanzana che gli è costata tanti anni di sofferenza. Questo ha detto il 48enne che dopo nove anni si è visto assolvere dalla Corte di Cassazione per il furto dell’ortaggio. Nient’altro che uno stato di necessità, dunque, reso ancor più urgente dalla presenza di un figlio. Tutti elementi che l’uomo, difeso dall’avvocato Silvana D’Agostino, aveva già raccontato ai giudici di primo grado. Un appello inascoltato, evidentemente.

Ora è amareggiato, S.S., non capisce come mai si debbano affrontare tre gradi di giudizio per giungere a quella che considera una conclusione ovvia: quel tentativo di rubare una melanzana altro non era che un gesto, oltre che di scarso rilievo dal punto di vista economico, anche dettato dall’assoluta necessità di sfamare il proprio figlio.
«All’epoca non lavoravo, avevo una moglie e un bambino piccolo, e mi ero recato in campagna per raccogliere un po’ di legna per riscaldare casa». Questo, in sostanza, dice oggi S.S., dopo aver sopportato nove anni di processi. «Poi ho visto una melanzana, ho pensato a mio figlio e alla necessità di preparare un pasto. Così ho deciso di portarla via». Fino a quando non è stato visto dal fratello della proprietaria del fondo agricolo. È stato bloccato e gli sono state sottratte le chiavi dell’auto, parcheggiata poco lontano e con il cofano lasciato aperto. Questo ha raccontato l’uomo. «Tra l’altro la parte offesa, che non si è nemmeno costituita parte civile nel processo - spiega l’avvocato D’Agostino - non ha voluto rimettere la querela. Concretamente sarebbe cambiato poco, nel senso che per questo reato si è proceduto d’ufficio. Ma sicuramente sarebbe stato un segnale importante anche per la valutazione dei giudici, in vista della sentenza».
Dopo quell’episodio, in attesa dell’esito del processo, S.S. è tornato nella sua terra natale, la Sardegna. Continuando ad avvertire dentro di sé quel tarlo difficile da ignorare: se la condanna (ridotta in appello a cinque mesi) fosse diventata definitiva, lo avrebbe aspettato una cella del carcere. Perché difficilmente l’uomo avrebbe beneficiato della sospensione condizionale della pena, visti i suoi precedenti guai con la giustizia. Ma un percorso di riabilitazione lo aveva tenuto lontano dai guai per lungo tempo. Fino a quell’episodio paradossale della melanzana. E lui, peraltro, nonostante fosse stato ammesso al gratuito patrocinio, non è riuscito a dimostrare nel corso dei primi due gradi di giudizio lo stato di necessità in cui versava e che lo avrebbe spinto a fare quello che ha fatto. Né i giudici leccesi hanno mai tenuto conto della particolare tenuità del fatto. Un errore, secondo la Corte di Cassazione: «È innegabile - scrivono i giudici romani - che il delitto tentato presenti una modestissima offensività, sì da rendere certamente operante l’istituto di cui all’articolo 131-bis del codice penale», ovvero la non punibilità per la particolare tenuità del fatto.

Ora S.S. si trova ancora in Sardegna. Ironia della sorte, fa l’agricoltore. Ma ancora oggi le cose non vanno benissimo. Per questo ha pensato di tornare nel Salento, dove ha allacciato legami che nel tempo non si sono sciolti. Con la speranza che, almeno in questo caso, non sia ancora costretto dalle circostanze a rubare una melanzana. Leggi l'articolo completo su
Quotidiano Di Puglia