I “parenti dei pinguini” vivevano nel Salento

I “parenti dei pinguini” vivevano nel Salento
Un pinguino sulle coste del Salento? Non è l’ultima trovata pubblicitaria che ha come sfondo le baie dell’Adriatico o le spiagge dello Jonio: una specie di...

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Un pinguino sulle coste del Salento? Non è l’ultima trovata pubblicitaria che ha come sfondo le baie dell’Adriatico o le spiagge dello Jonio: una specie di pinguino, tanti anni fa, nel Salento esisteva davvero. Lo ricorda il National Geographic, nel numero di maggio dedicato alla varietà di uccelli preistorici i cui calchi fanno bella mostra nel museo paleontologico “Decio De Lorentiis” di Maglie, provenienti dalla Grotta Romanelli di Castro. Nell’articolo firmato dalle giornaliste scientifiche Lisa Signorile e Anna Rita Longo c’è una ricostruzione dell’animale che nel Salento viveva e proliferava senza troppi problemi.

«Non si trattava infatti di pinguini - spiegano le due autrici - ma del loro corrispettivo boreale, l’“Alca impenne” (Pinguinus impennis), parente delle urie e delle gazze marine. Le coste pugliesi del Paleolitico erano colonizzate anche da molti altri animali che oggi prediligono la taiga o zone oceaniche temperate o fredde. Tra 15 e 10mila anni fa, l’ultimo periodo della Glaciazione di Würm aveva portato venti gelidi e clima arido nel Sud Italia, rendendolo poco ospitale per gli esseri umani».
Uno dei siti fondamentali per capire cosa accadde nel Paleolitico Superiore è proprio la Grotta Romanelli, scoperta nel 1900 lungo la costa adriatica salentina da Paolo Emilio Stasi: i suoi reperti, ancora in larga parte inediti, sono sparsi tra vari musei, tra cui il Museo civico di Maglie, dove si trova il calco dei due ossi di uccello ritrovati nella grotta (omero e ulna), tutto ciò che resta dell’alca pugliese, il “pinguino salentino” appunto.

«In questo clima subartico - spiegano le due autrici - la vita dei nostri progenitori non doveva essere facile, ma l’Homo sapiens aveva portato con sé dall’Africa la tecnologia e le capacità necessarie a sopravvivere. Due reperti risalenti a 11-9.000 anni fa ci raccontano della vita quotidiana di questi cacciatori-raccoglitori. Si tratta di zagaglie in osso, punte di un’arma tra lancia e giavellotto».

Dopo 40 anni i lavori nella grotta riprenderanno: gli scavi sono guidati da Raffaele Sardella e Massimo Massussi, dell’Università La Sapienza di Roma, che si serviranno di tecniche come laser scanner e Tac per lo studio dei fossili. «L’età dei depositi è una delle questioni che vorremmo definire in tempi brevi, si spera entro il 2016 - spiega Sardella - il quadro stratigrafico suggerisce la presenza di forme umane differenti: Homo neanderthalensis (se non una forma ancor più antica) e Homo sapiens».


Forse, concludono le autrici dell’articolo, sarà l’occasione per sapere qualcosa in più anche sullo sfortunato “pinguino” salentino e sui suoi nemici umani. L'alca impenne infatti era un uccello incapace di volare, appartenente alla famiglia degli Alcidi, scomparso attorno alla metà del XIX secolo. Studiata da Carlo Linneo nella sua opera del XVIII secolo, il “Systema Naturae”, deve il suo nome al termine scandinavo che veniva usato per indicare le gazze marine e i loro simili. Molti uomini di mare in passato venivano seppelliti assieme ad ossa di alca impenne, che vuol dire senza penne remiganti. Nel corso dei secoli, il piumino di questo uccello divenne molto richiesto in Europa, tanto da causare la rapida scomparsa delle popolazioni animali già attorno alla metà del XVI secolo. Divenne una specie rara, accrescendo la curiosità degli studiosi e di conseguenza dei musei e dei collezionisti privati che fecero di tutto per ottenere spoglie e uova. Il 3 luglio 1844, gli ultimi due esemplari avvistati vennero abbattuti a Eldey, al largo delle coste dell'Islanda, facendo sfumare l'ultimo tentativo di riproduzione.  Leggi l'articolo completo su
Quotidiano Di Puglia