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ll risveglio è stato brusco. Più brusco del previsto.
Gli scricchiolii del sistema pensionistico italiano erano noti, ma adesso le crepe sono diventate visibili. Il presidente dell’Inps, l’ente che le pensioni le deve pagare, ha iniziato a indicarle una per una. La prima, più evidente, riguarda il rapporto tra i lavoratori e i pensionati. Non è una semplice curiosità statistica. Ha molto a che fare con la capacità che in futuro avranno l’Inps e lo Stato di pagare le pensioni a chi lascerà il lavoro. Il sistema italiano è infatti un sistema a “ripartizione”. Cosa significa? Semplicemente che chi lavora, con i contributi previdenziali che versa mensilmente, paga la pensione a chi si è ritirato. Quello “contributivo” è solo un sistema di calcolo per cui l’assegno che si intasca una volta usciti dal mercato del lavoro, è determinato dai versamenti effettuati all’Inps durante la carriera. Ma non esiste davvero un “cassetto personale” dove questi versamenti sono realmente accantonati.
LO SCENARIO
In un sistema costruito così, dunque, è fondamentale che i lavoratori siano in numero superiore ai pensionati. Di quanto superiore? Per tenere in piedi il sistema, ha spiegato Tridico, sarebbe necessario fare tutto il possibile perché non si scenda mai sotto 1,5 lavoratori per ogni pensionato. Il fatto è che l’Italia già viaggia sotto il livello di guardia. Siamo a 1,4 lavoratori per ogni pensionato. E nel 2030 le previsioni dicono che scenderemo a 1,3. Nel 2050, sempre secondo le proiezioni, si cadrà fino alla parità. Ogni lavoratore, cioè, con i contributi che paga sul suo stipendio dovrà pagare un’intera pensione. Difficile anche solo immaginarlo. Ma perché le previsioni sono così cupe? La principale ragione va cercata nel calo demografico. Se non nascono bambini in futuro non ci saranno lavoratori, mentre i pensionati continueranno ad aumentare. Le culle vuote sono la principale emergenza nazionale. Per garantire la sostenibilità del sistema pensionistico servirebbero 500-600mila nascite l’anno. Oggi siamo sotto le 400mila. In Italia ogni donna genera in media 1,2 figli. Troppo pochi. L’asticella va tirata su. E subito, anche perché per invertire il trend demografico il tempo si conta in decenni e non in anni. Se n’è accorto anche il governo. Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha detto che serve una cura shock. E ha promesso che il governo agirà in tempi brevi. L’idea, o una delle idee, è quella di assegnare detrazioni o deduzioni “monstre”, di 10mila euro a figlio in modo da azzerare le tasse alle famiglie che hanno da due bambini in su. I costi di una misura del genere sarebbero, ovviamente, molto alti.
I CONTI
L’importo medio delle pensioni dei lavoratori dipendenti che sono usciti con il sistema contributivo puro, secondo il decimo Rapporto sul bilancio previdenziale italiano, è stato di poco superiore a 711 euro al mese. Per gli artigiani si scende a 578 euro di media, per i commercianti a 563 euro, per i parasubordinati addirittura a 233 euro. Con una complicazione ulteriore. I futuri pensionati non avranno il cosiddetto “adeguamento al minimo”, il meccanismo oggi in vigore che fa salire gli assegni più bassi fino a 575 euro al mese (600 euro per gli over 75). Ma cosa succede se un lavoratore che sta nel sistema contributivo matura una pensione inferiore a 1.600 euro al mese? Se quello stesso lavoratore ha maturato una pensione almeno pari a 1,5 volte quella minima, ossia 862 euro circa al mese ai valori attuali, può uscire con l’età della “vecchiaia”, che per adesso è fissata a 67 anni. Se, infine, sta anche sotto questa cifra, dovrà attendere fino a 70 anni per andare in pensione. I giovani, insomma, non solo sono sempre meno, ma dovranno coi loro stipendi sostenere sempre più pensionati e accontentarsi, quando toccherà lasciare a loro il lavoro, di assegni sempre più bassi.
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