L’abbazia di San Nicola di Càsole fu faro di cultura per l’intero Mediterraneo, luogo mistico e sincretico di coesistenza pacifica e feconda tra Oriente e Occidente, enclave...
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Nella sua instancabile navigazione nei meandri più scoscesi della storia locale e delle strade filosofiche meno battute dalla scienza ufficiale, infatti, non poteva mancare a De Marco un approdo al luogo più autenticamente universale del Salento e di Puglia: l’opera visionaria e, insieme, lucidamente mitopoietica di Pantaleone. Forse monaco, sicuramente erudito che nel dodicesimo secolo – dunque davvero precedendo di tre secoli i fermenti culturali dell’Umanesimo – riuscì a mettere insieme tutto il sacro e anche un po’ di profano in quel capolavoro musivo che, pur setacciato e vivisezionato da sempre, mantiene intatto il suo fascino misterioso di summa cosmogonica universale. Di compendio religioso, esoterico e alchemico che resta là ad indicarci, nonostante il sacro sembri non rientrare più tra le priorità di un’umanità (sedicente) progredita, come le domande campali necessarie all’essere umano siano sempre le stesse: chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?
De Marco, risposte certe, non ne dà. Si limita a una proposta, a un personale tentativo di decrittazione dell’opera, simbolo dopo simbolo, riportando storie e suggestioni al riguardo. Più certe, invece, le origini del mosaico di Otranto, che De Marco contestualizza nel volume regalandoci uno spaccato sintetico ma puntuale del Salento substrato della temperie religiosa, culturale e sociale che portò alla realizzazione dell’opera, con excursus precisi e documentati sulla situazione territoriale tra il VI e il XIII secolo. Con la Puglia divisa tra Longobardi e Bizantini e l’arrivo nella penisola salentina dei monaci basiliani, i cui monasteri contribuirono non poco all’organizzazione economico-sociale di un territorio devastato dalle scorribande turche (e non solo) e alla conservazione e trasmissione di quel sapere antico e universale, dalla letteratura all’astrologia, che costituiva materia di studio per gli eruditi dell’epoca.
Così, quando nel Salento arrivarono i Normanni, con la loro dominazione “gentile” e illuminata, i tempi furono maturi per l’opera di Pantaleone e per gli “effluvi” ecumenici che si spandevano dalla biblioteca di quel microcosmo immenso che fu l’abbazia di Casole, da cui partì probabilmente il monaco deputato a trasfondere tutto quel sapere in quell’enigma musivo che, nonostante i ripetuti tentativi di decifrazione, non cede un grammo del suo fascino arcano: “Altro che guazzabuglio, come qualche sprovveduto ha sostenuto”, conclude infatti lo studioso salentino. “Tanto, nell’opera di Pantaleone, ci parla di alchimia, di esoterismo, di scienza magico-ermetica, adombrato da una narratività che, letta con il terzo occhio, ci palesa una logica coerente e inoppugnabile, pregna di eterna attualità e testimone di un’ininterrotta tradizione che si pone al di là del tempo e delle sue profane manifestazioni”. Leggi l'articolo completo su
Quotidiano Di Puglia