“Irene e Frida”, doppio diario di due donne contro

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Come ridare dignità al diario come genere narrativo? Leggendolo. Il protagonista di uno dei più bei romanzi di Georges Simenon, “L’uomo che guardava...

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Come ridare dignità al diario come genere narrativo? Leggendolo. Il protagonista di uno dei più bei romanzi di Georges Simenon, “L’uomo che guardava passare i treni”, compra un taccuino il giorno in cui decide di cambiar vita e sulla prima pagina bianca scrive: “La verità sul caso di Kees Popinga”. Lui stesso. Dopo l’acquisto però su quel diario lui non scriverà mai più una sola parola. Viaggerà a lungo, diventerà un mostro, un paranoide, abbandonerà famiglia e lavoro, ucciderà una donna, commetterà crimini e nefandezze, ma nessuna parola sul suo diario. Nessuna verità, nessuna identità per lui. Perché un diario è questo: verità in briciole, in singhiozzi, in capitoli. E poiché, per dirla alla Nabokov, la finzione è l’unico modo che ci resta per raccontare la verità, anche i diari più veri sono finzione, racconti, letteratura.

Non a caso il self writing è stato ed è uno dei più amati generi letterari, a volte ingiustamente mortificato da etichette volte a trasformarlo in gesto prettamente femminile, espressione di fragilità e frivolezza. È vero invece l’esatto contrario. Scrivere un diario è atto di forza. Di umana onestà intellettuale. Da non confondersi con i diari scritti per ragioni terapeutiche. Non con quelli, peraltro nobilissimi, che sono inevitabili come una pasticca, compulsivi come le preghiere della sera davanti all’altare delle proprie debolezze. No. Non quelli solitari, ma quelli condivisi. Un diario diventa narrativa quando parla agli altri e non solo a se stessi. Si trasforma poi in grande narrativa quando diventa: gli altri.
E’ il caso del secondo romanzo della salentina Simona Cleopazzo, operatrice culturale a tutto tondo, dal titolo “Irene e Frida”, Musicaos editore. Un diario doppio, il suo: due voci di donna, due pagine che si fronteggiano, caratteri diversi, stili e vite diverse. Irene, moglie e madre, alle prese con la deriva di un marito che scopre corrotto e alieno. Irene la mite, alle prese con gli studi che svaporano e un nuovo amore fuori dalle regole. Il loro farsi ammalare dal quotidiano. Stesso ritmo, diverso affanno. Le mutazioni sulla carta e una strana geografia, che le porta l’una verso l’altra, come continenti in una lenta ma inesorabile pangea. In questo caso il diario diventa esercizio di perdono universale. «Tutti prima o poi ci troviamo nella situazione di dover perdonare qualcuno. Qualcuno, dopo aver metabolizzato il tutto, ci riesce. Altri accumulano rabbia».

Le due donne di Simona Cleopazzo, immerse in una Lecce luminescente e liquida, appaiono incagliate tra il perdonare e il dimenticare. Il diario è il loro grimaldello. Lo stile è volutamente fratturato e fratturante. Lapidario e veloce. Coinvolgente. Leggere queste pagine è come rubare da una borsa lo specchietto segreto di una donna in guerra e finalmente capire, dal proprio riflesso in un oggetto altrui, cosa è quella guerra e quella donna chi è. E chi potrebbe diventare domani. Leggi l'articolo completo su
Quotidiano Di Puglia