L’arrivo a Bari, l’8 agosto del 1991, della nave Vlora, con lo sbarco di 20.000 albanesi; l’incendio del Teatro Petruzzelli, il 27 ottobre 1991; la strage di San...
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La mostra è stata allestita a Bari nel colonnato del Palazzo della Città Metropolitana (ex Provincia) e ripercorre il lavoro della Polizia Scientifica a partire dalle foto segnaletiche di Benito Mussolini arrestato nel 1903 a Berna. Proprio il pannello relativo a Mussolini mostra un singolare evento evidenziando che la segnaletica riporta l’erronea dicitura del nome: “Mussolini Benedetto”.
La mostra è stata inaugurata alla presenza del prefetto Vittorio Rizzi, direttore centrale dell’Anticrimine, e proseguirà fino al 16 dicembre. Presenti, tra gli altri, il questore di Bari, Carmine Esposito, e Gianrico Carofiglio, ex magistrato e scrittore. Rizzi ha ricordato il contributo dato alle indagini dalle scienze a partire dalla fine dell’800, con l’Illuminismo, al termine del periodo delle torture e dell’inquisizione. La scienza - ha ricordato - diventa fondamentale e le impronte digitali sono il primo passo per l’identificazione delle persone. Quindi il salto nel futuro: «Siamo i figli dell’era digitale. Il futuro - ha detto Rizzi - ci fa immaginare qualcosa di diverso come il bit quantistico e una dimensione tutta nuova delle scienze».
A Bari, per l’inaugurazione della mostra, anche Fausto Lamparelli ex dirigente della Squadra Mobile del capoluogo. «Sono felice di rappresentare a Bari la Polizia Scientifica - ha detto Lamparelli - città che conosco per avere diretto per due anni la Squadra Mobile». «Un ufficio strategico», ha definito Lamparelli quello della Scientifica facendo poi riferimento a Salvatore Ottolenghi, medico legale, fondatore della scuola della Polizia Scientifica e a Cesare Lombroso, padre della moderna criminologia.
Gianrico Carofiglio ha riferito di una storia vera, quella di un poliziotto intervenuto sulla scena dell’omicidio di un medico. «Mentre molti si affannavano a cercare elementi utili alle indagini, lui - ha raccontato Carofiglio - prese il blocco delle ricette dell’uomo su cui non c’era nulla, ma era rimasta la traccia di quanto scritto come ultima cosa dal medico e cioè il nome dell’ultimo paziente visitato che si rivelò quello d’assassino». «Una storia che mi è rimasta impressa nella memoria, - ha detto Carofiglio - una storia che esprime bene il metodo investigativo». «Non possiamo dire se un fatto è vero o falso - ha proseguito -. Possiamo dire se esiste o no. Qualsiasi atto umano lascia una traccia. La sfida del lavoro investigativo è quello di recuperare la traccia. All’investigatore poi tocca costruire la storia plausibile». (Ansa) Leggi l'articolo completo su
Quotidiano Di Puglia