Si dice giustamente, anche in questo caso, prendendo a prestito, la famosa frase della canzone “La locomotiva” di Francesco Guccini, che “gli eroi son tutti...
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Un volo lungo 100 chilometri per il palloncino del "guerriero sorridente"
Un elmo sulla bara di Giovanni, il “guerriero sorridente” che inneggiava alla vita: a migliaia per l'ultimo saluto
«Sono stanco, vado in coma farmacologico»: il post del calciatore malato di cancro. La solidarietà del mondo dello sport
Scelte di vita, parole e sentimenti, insomma qualcosa che lui con innocente irridenza ha voluto mantenere nell’alveo di una naturale dimensione umana. Nonostante l’assoluta drammaticità della sua storia. In lui è nato progressivamente un sentimento che lo ha portato a rivendicare probabilmente l’ineluttabilità del tutto, che almeno e constatato che riguarda tutti, è forse più giusto “sfidarla”, sempre con rispetto, che invece eluderla, magari rimuovendola dalla nostra esistenza.
Si allude alla “scimmia sulla schiena”, si sa, che se ne voglia accorgere o meno, ci accompagna per tutta l’esistenza. Giovanni è come se avesse voluto dire a tutti noi: “questa è la vita signori miei e non vi basterano esorcismi e scongiuri vari, rimozioni e quant’altro” ad affontare di petto “sorella morte” e che forse è meglio guardarla negli occhi, mentre inevitabilmente sorniona e beffarda, ti danza intorno.
Giovanni Custodero è di quelli da additare anche a certi retori sapientoni, quelli che con vanagloriosa supponenza additano i giovani, nei talk show televisivi, con dure parole. Quelli che le imbecillità di certi di noi adulti li porta a parlare dei ragazzi come indolenti, annichiliti dalla rete, privi di coraggio e spina dorsale. E che forse, talvolta, farebbero meglio a tacere.
Era da tre anni che Giovanni Custodero, da Pezze di Greco, piccolo e familiare borgo alle porte di Fasano, aveva deciso di rendere pubblico il suo terribile male, un sarcoma che lo avrebbe portato anche a perdere una gamba. Lo aveva fatto con grande consapevolezza, non per trarci l’effimero guadagno, “la visibilità”, cioè di poter rimbalzare via via sui media provinciali e nazionali, ma perché voleva dare voce ai non pochi, giovani e non, che sono colpiti da malattie terribili; perché sapendo più di loro e dei loro drammi e magari chiedendo più sforzi verso la ricerca e l’aiuto di chi soffre, questa era la sua speranza, sarebbe accresciuta la propensione a non imprecare sempre contro il destino cinico e baro; a non considerare la malattia quale momento di naturale ed inevitabile abbrutimento di se’ stessi, ma anche l’occasione di combatterla “guardandola in faccia” e “rivelando” a noi torpidi umani, udite udite, “che la vita è bella!”.
Che val la pena essere visssuta, che la dignità di se stessi significhi anche, come ben scrive di Giovanni, Alfonso Spagnulo su questo giornale, “che la sua vittoria è tutta qui e in tutto quello che ci ha lasciato: speranze, sorrisi, voglia di vivere, di tenersi aggrappati a questa esistenza, di non indietreggiare mai. Neppure quando non si riesce più a fare goal”. Già, Giovanni in fondo, è stato il grande prototipo, da bravo portiere della squadra di calcetto del Fasano, filiato da quel Nino di Francesco de Gregori, quello poeticamente cantato in “Leva calcistica del’ ‘68”. Lui non “ha avuto paura di sbagliare il calcio di rigore”, come Nino, ne’ di provare a calciarlo a suo modo; anche se in porta esponeva beffardo il suo ghigno, la gran falciatrice del tutto. Giovanni voleva, doveva tirarlo questo benedetto penalty, inseguendo il suo assoluto desiderio di vita, come esito della battaglia, della contesa finale con la morte; chissà, perché no, magari sperando che anche lei conoscesse un minimo sentimento affine agli umani. La pietà magari, quel miracolo che a volte accade tra noi e che, come in questo caso, anche se non si realizza, alfine fa accadere comunque allora che “dai diamanti non nasce niente, ma dal letame nascono i fiori”, come ci cantava il nostro grande Faber.
Perché è proprio dalla materia melmosa e terribile della sofferenza e poi della morte che sono nati questi fiori intrisi di bellezza e inno alla vita, quei tanti messaggi positivi e pieni di speranza che la sofferenza trovi più ascolto in tanti di noi: quello che voleva Giovanni, a ben vedere. Quelle gemme fiorite, in questo gelido gennaio, nate comunque dai fiori dei suoi messaggi positivi, da quei grandi sentimenti di vicinanza ed affetto che in tanti gli hanno tributato; quel grande affetto che la comunità di Pezze di Greco e Fasano gli hanno riconosciuto, circondandolo dell’amore, è questa allora la parola giusta, che lui è riuscito a far sgorgare. In tempi così cinici e complicati non è poco. Se è poi vero che anche la madre di Giovanni, la sorella e la fidanzata, sono apparse alla fine anche loro baciate da quell’aura “spirituale”, che l’affetto e vicinanza ad un ragazzo così bellamente formato, che ha saputo mantenere una immensa dignità ha saputo anche a loro donare sempre, anche quando, prima di volare in Cielo, ha voluto andare consapevolmente in coma farmacologico, facendolo in una forma di rispetto ed amore rivolto, prima che a se stesso, soprattutto a quei suoi cari, per preservarli da quella lunga agonia che anche loro stava consumando.
Per ritornare verso metafore calcistiche, che lui doveva molto amare, non è a caso, e secondo chi scrive lo sapeva, ovvero che quella sua predilezione per “la maglia n. 7” gli sia venuto dal racconto di qualche adulto; uno di quelli che “ai tempi suoi”, quando giocava a pallone o seguiva il calcio, più autarchico e forse più bello di un tempo, diciamo di 50 anni fa, sapeva che chi indossava la maglia di n.7, l’ala destra da marcare a uomo, era generalmente il giocatore più estroso, il creativo o “diverso”, il funambolo o il tessitore che teneva in piedi la squadra. Come lo erano Jair per l’Inter, Perani per il Bologna ma soprattutto il davvero mitico Gigi Meroni, il beat del calcio italiano, che appunto, pure lui, divenne anche uno degli “eroi che son tutti giovani e belli”. Anche lui falciato, stavolta da una macchina a Torino nel 1967.
Giovanni Custodero amava cantare, anche a squarciagola, le sue canzoni, magari dopo una serata conviviale con amici e ragazza, oltre che giocare a calcetto. Amava levare al cielo il “canto dei ragazzi”, quelli che dagli anni sessanta hanno accompagnato tutte le generazioni giovanili. Nessuna esclusa. Chissà se si è mai imbattuto nel poeta e cantante Fabrizio De Andrè, magari in quella raccolta di canzoni che ispirate all’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, alludono a quella collina nella quale, si immagina, dormono quieti finalmente quelli che sono stati prima di noi sulla terra. E chissà se conosce quella prima poesia scritta da Masters e cantata da Faber, quella che dice “Lui che offrì la faccia al vento/la gola al vino/e mai un pensiero... Dormono, dormono sulla collina”. Ecco allora, sarebbe bello immaginare Giovanni Custodero riposare per sempre su quella collina. Magari nei pressi di Faber. Per continuare a cantare insieme, per sempre. Leggi l'articolo completo su
Quotidiano Di Puglia