Ci prova e in fondo, forse, ci riesce. Matteo Renzi sbarca a Lecce e vuol plasmare il format referendario sulle peculiarità pugliesi e salentine, e non soltanto elogiando...
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È una strategia pianificata col bilancino d’orafo: Renzi sa che la Puglia, e in particolare il Salento, sono una delle ultime “ridotte” dalemiane. Nella sala gremita del Politeama greco di Lecce, del resto, gli ex fedelissimi del fu “Lider Massimo” non mancano, tra i parlamentari, gli amministratori locali, i dirigenti o i semplici aficionados. Renzi, chirurgico, sceglie il bersaglio e viceversa risparmia Emiliano, un po’ perché il governatore non s’è ancora apertamente dichiarato per il “no”, e un po’ perché stamattina “Matteo” e “Michele” sottoscriveranno in Fiera del Levante il Patto Puglia.
Ma tant’è: “Il referendum degli italiani”, recita il “muro” multimediale alle spalle del premier, scenografia in stile Leopolda e maniche di camicia bianca. L’entrée è da un ingresso secondario, anche perché quello principale è presidiato dalla protesta. Renzi spinge molto sul concetto: le redini del cambiamento sono nelle mani dei cittadini, «ora tocca a voi, non a me, non ai ministri e nemmeno a quel galantuomo (Giorgio Napolitano, ndr) che ha dato avvio alle riforme e ha permesso al Paese di affrontare momenti di difficoltà», e l’applauso è scrosciante. «Riforma delle persone» è l’altra etichetta per battezzare la battaglia. Cercando, lì dove possibile, di spogliarsi degli abiti dell’arringatore di folle: «Non sono qui per convincervi, ma per entrare nel merito», visto che «tutti ce lo chiedono e quindi lo facciamo». Quasi in maniera didascalica, pedagogica, allora il premier sfodera sullo schermo alle spalle il quesito referendario, e lo scompone punto per punto. Primo: il bicameralismo paritario che «solo da noi funziona così», «un ping-pong assurdo che sta solo facendo perdere tempo all’Italia», che ha determinato «instabilità» e «63 governi in 70 anni», una «instabilità che rende più difficile trattare in Europa». Secondo: la «riduzione del numero di parlamentari». Terzo: l’abbattimento dei costi, «e circa 500 milioni li destineremo al fondo per la povertà». Quarto: la soppressione del Cnel, «costato 1 miliardo in 70 anni». Ultimo punto: la revisione del titolo V e dei rapporti Stato-Regioni, «che in questi anni ha portato molti elementi di contrapposizione». Insomma: la riforma è tutta qui, la palla passa ai cittadini. Né c’è il «rischio di autoritarismo»: «Non c’è un articolo che rafforza i poteri del premier, è più difficile da trovare di qualche personaggio raro di Pokémon». E l’obiettivo di Renzi è anche spezzare l’asse tra quesito referendario e altre tracce secondarie, nascoste: «Il referendum non serve come vi hanno detto, ma è un errore fatto anche da noi, a stabilire il futuro del governo. E non c’entra la legge elettorale, che si può cambiare».
Lecce è l’ultima tappa di una giornata intensa. Renzi è reduce dal vertice di Euro-Med ad Atene, lo ricorda al primo soffio dei circa 50 minuti di discorso ed è la miccia al ragionamento: «L’Europa e il mondo hanno bisogno dell’Italia, ma è necessario che il Paese diventi più agile e creda davvero in se stesso e nel cambiamento», che «accresce la credibilità». Un cambiamento «a 360 gradi»: dalle «regole del mercato del lavoro, anche se il Jobs Act non è sufficiente e chi è lì fuori è gente che non ce l’ha fatta», alle riforme d’impatto sociale e alla burocrazia. «Ma ancora non basta», «c’è bisogno di un’Italia che ci prova, ci crede, e non dice solo “no”». Spuntano altre stoccate «alle bugie sulla riforma», «ai presunti esegeti di sinistra» pizzicati citando Nilde Iotti che nel 1979 criticava duramente il bicameralismo paritario, e poi battute e motti di spirito, pescando siparietti con Obama sull’eccessivo numero di parlamentari italiani e affondando i colpi sul M5s («qualcuno voleva parlassi di Grillo, ma siamo in prima serata, non posso, ci sono i bambini...», anche se poco prima aveva espresso «dispiacere e tristezza per le vicende romane», disponibile «a dare una mano»). Le ultime curve sono più emozionali: il mettersi in gioco, la sfida generazionale, il «togliersi le fette di prosciutto dagli occhi» perché «siamo un Paese migliore di come lo raccontiamo», la clip sulle bellezze italiane, la «fiducia» e via così, lucidando l’antica dialettica sognante renziana. Senza però distogliere lo sguardo dal pragmatismo di chi deve trottare un bel po’ per far recuperare terreno al “sì”: lì fuori le trappole sono tante, non solo dalemiane. E Renzi lo sa. Leggi l'articolo completo su
Quotidiano Di Puglia