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Li chiamano maestri d'ascia per evidenti motivi. Non sono scomparsi, ma ne sono rimasti pochi. Diciotto per l'esattezza nel comprensorio della Capitaneria di porto di Gallipoli, e cioè da Punta Prosciutto, al confine con Taranto, fino a Castro, sul versante adriatico. Il più fornito, sotto questo aspetto. Per trovarne in numero superiore bisogna dirigersi verso Bari e anche oltre. Non è pedanteria da legulei: nei numeri c'è la variazione altimetrica di un mestiere - quello di costruttore di barche - esposto ai venti della modernità, alle sferzate della vetroresina in particolare. Una volta non c'era altro modo per salpare: il primo passo era un buon legname, il secondo mani sapienti di artigiani, il terzo sufficienti abilità marinaresche. Oggi il primo e il secondo step si possono superare con un solo balzo, l'industria forgia modelli a stampo di qualsiasi forma e per tutte le tasche; il terzo sono affari vostri. Ma se il mare è una passione profonda (e anche il portafogli è alquanto capiente), sempre qui dovrete far tappa. Dai maestri d'ascia.
Il mestiere è antico (ma non il più antico, basta poco per equivocare). Abilità e bravura sono frutto di anni di lavoro e di esperienza: la differenza si vede, si sente, si tocca. Comunque sia, i requisiti minimi sono abbordabili: 36 mesi di apprendistato, esame al cospetto di un ingegnere del Registro navale italiano e un ufficiale della Marina e poi l'inserimento negli elenchi dei costruttori di barche. Maestri d'ascia, appunto. Fino a cinquanta tonnellate di stazza, più o meno trenta metri di lunghezza, fanno tutto loro. Un'enormità, d'accordo. Chi osa di più ha bisogno di professionisti e tecnici per la progettazione e la supervisione. Ma a quel punto saremmo al di là dei limiti dell'immaginazione (e col conto in banca forse anche ben oltre il confine, diciamolo).
Diciotto, allora. Decenni fa un esercito; a Gallipoli era tutto un tintinnare di ferri, legno, mazzuole e attrezzi vari: l'ascia per sagomare, la pialla per levigare, il martello per inchiodare, la malabestia e il maglio da calafato (si chiamano così, non fate quella faccia) per impermeabilizzare. Nei primi anni Duemila, di mastri artigiani se ne contavano quindici. Ora si torna a salire. Di poco, ma è già tanto. Agli anziani subentrano i giovani. Non tutto è perduto. Ma ci vogliono pazienza e molto spirito di sacrificio. Quando non si costruisce - ormai sempre meno - si ripara. O si recupera, restaura e ristruttura. Che a volte è impresa ancor più complessa: se ti portano un gozzo cabinato di quarant'anni acquistato al nord, frequentato ormai solo da tarli e funghi, e te lo presentano dopo mille chilometri percorsi da Genova fin qui, dal luogo della transazione a quello della possibile resurrezione, fra strade, autostrade, discese ardite e risalite, non hai molte possibilità: o inviti gli amici e fai un bel falò o, al contrario, compi un vero miracolo. Antonio Magno vi aspetta per quest'ultimo. Per la fòcara non si è ancora attrezzato. Dategli tempo.
Il suo cantiere è lì da cinquant'anni, in zona Fontanelle, tra il vecchio ospedale e il porto, accanto a una sorgente d'acqua, a ridosso della vecchia tonnara, l'ex Capo Rais, una delle due attive un tempo in città (l'altra era alla Giudecca, a scirocco; insomma, dall'altra parte). Lui di anni ne ha 64 ed è figlio d'arte. Suo padre, Cosimo, era maestro d'ascia sulla Cristoforo Colombo, una delle due navi scuola della Regia Marina insieme con la gemella, l'Amerigo Vespucci. Una storia a parte: cento metri di lunghezza, 400 persone a bordo, quattro cannoni e quattro mitragliatrici, la Colombo riparò a Brindisi il giorno dell'armistizio, l'8 settembre 1943, per essere poi ceduta ai sovietici in base ai trattati di pace siglati a Parigi il 10 febbraio 1947. I russi la ridipinsero di grigio, poi la utilizzarono per addestramento, infine la impiegarono per trasportare legna e fu il disastro: distrutta da un incendio nel 1963, venne demolita. Cosimo nel frattempo, sbarcato a terra, aveva aperto il suo primo cantiere alla Purità, si era trasferito dietro al Canneto e infine sistemato qui, zona Fontanelle. Lui non c'è più da quindici anni: se n'è andato che ne aveva 80. Da allora va avanti Antonio. «Sono cresciuto seguendo mio padre, la passione è venuta così: la mattina mi accompagnava a scuola con la Vespa e quando uscivo correvo in cantiere», ricorda. I suoi figli non sono stati da meno. Con qualche differenza: lui si è diplomato al tecnico professionale, loro al liceo classico. Mimmo (Cosimo, come il nonno) e Andrea, 37 e 35 anni. «Avrei preferito proseguissero gli studi». Il richiamo del mare è stato più forte. Hanno lasciato l'Università - Economia il primo e Biologia il secondo - per seguire il padre e il nonno. Dal 2010 anche loro sono maestri d'ascia. La piccola di casa, Rita, prossima ai 18 anni, non segue la scia (la battuta prima o poi sarebbe arrivata) e si tiene alla larga. Almeno per ora. In compenso a coadiuvarli sul cantiere c'è Bruce. Fa l'uomo d'ordine. Si aggira tra chiglie e carene. Vigila agli ingressi. E all'occorrenza abbaia: è un incrocio tra un bull terrier e un boxer. Sarà per questo che è sempre dietro l'angolo.
«Se ci fossero le strutture adatte, questo mestiere avrebbe un futuro magnifico», spiega Magno. Occhi azzurri, barba bianca, volto abbronzato. Se pensate a un lupo di mare, eccolo. «Una città come Gallipoli dovrebbe avere non solo un porto turistico ma anche strutture a terra adeguate. Di mare non si vive solo d'estate, ma anche nel resto dell'anno: riparazioni, rimessaggi, costruzioni. C'è un mondo in attesa di esplodere. E invece siamo qui, io come gli altri colleghi, tra pastoie burocratiche e concessioni che si rinnovano ogni quattro anni. Difficile fare progetti a lunga scadenza. In queste condizioni, pressoché impossibile investire». Ha una gru per muovere imbarcazioni imponenti, uno scalo d'alaggio con sistema a invaso per tirare in secco pescherecci e yacht anche superiori ai 30 metri. Le tecniche evolvono, le attrezzature anche. Ma se si tratta di costruire, si segue il vecchio schema: mezzo modello in scala per le misure, piano di costruzione a terra su legno sagomato, chiglia con trave in quercia (ora anche in iroko o azobè), ordinate per l'ossatura, bagli tra le opposte murate per il piano di calpestio, fasciame lungo lo scafo. Per ultimo il calafataggio, e cioè l'impermeabilizzazione tra le tavole: una volta con fibre naturali impregnate di pece, oggi anche con resine sintetiche e catrame. Comunque rigorosamente a mano. Sempre con malabestia e maglio, lo scalpello e la mazzuola. È l'ultima immagine di Antonio sul cantiere prima di chiudere bottega, ormai al tramonto. Stessa posizione e identica operazione del padre, Cosimo, sbarcato dalla Colombo e rimasto qui dopo la guerra. A Gallipoli. A dare una forma al mare.
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Quotidiano Di Puglia