Diffamazione, la Cassazione conferma il carcere per chi insulta su Facebook

Diffamazione, la Cassazione conferma il carcere per chi insulta su Facebook
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Sabato 23 Maggio 2015, 16:53 - Ultimo aggiornamento: 25 Maggio, 14:02
La Corte di Cassazione ha deciso: carcere per chi diffama su Facebook. A portare la questione davanti agli ermellini era stato l'avvocato Gianluca Arrighi che, nel patrocinare un processo per diffamazione tra due ex coniugi romani che si erano insultati con frasi postate sul noto social network, aveva sollevato il conflitto di competenza fra giudice di pace e tribunale.



Resta quindi confermata la competenza del tribunale, essendo ritenuta una forma di diffamazione aggravata, con conseguente possibilità di applicazione della detenzione in carcere. Il processo fra i due coniugi, infatti, era stato incardinato inizialmente davanti al giudice di pace che però aveva dichiarato la sua incompetenza ritenendo la diffamazione su Facebook aggravata dal mezzo della pubblicità e quindi di competenza del tribunale.



Proprio dal fatto che la diffamazione su Facebook sia considerata aggravata o meno deriva il rischio detenzione: mentre il giudice di pace applica soltanto sanzioni pecuniarie, il tribunale può anche infliggere il carcere e per la precisione, nel caso di diffamazione aggravata, la reclusione da sei mesi a tre anni. Il tribunale di Roma aveva accolto le argomentazioni dell'avvocato Arrighi stabilendo che Facebook non potesse essere paragonato a un blog o a un quotidiano online, visionabile da chiunque sulla rete, e che pertanto la competenza fosse del giudice di pace. Gli atti erano stati trasmessi alla Corte Suprema per la risoluzione del conflitto. Gli ermellini, all'esito della camera di consiglio, hanno stabilito che la diffamazione tramite Facebook debba essere considerata aggravata dal mezzo della pubblicità e che pertanto la pena da applicare potrà essere il carcere fino a tre anni.



«È una sentenza che non condivido - ha dichiarato Arrighi - ma che ovviamente rispetto. Rimane il dubbio che nei processi per reati commessi su internet sfuggano ancora, talvolta, le reali dinamiche della rete. Soltanto quando leggeremo le motivazioni della sentenza - ha concluso il penalista e scrittore - sapremo qual è stato il percorso logico giuridico seguito dalla Cassazione».



La controversia che ha visto il pronunciamento della suprema corte vede coinvolta una coppia già al centro di una burrascosa separazione. Sposati nel 2007, entrambi romani, lei 41 anni e lui 43. Dal matrimonio, nel 2010, è nato un figlio. La crisi matrimoniale e la separazione avvengono dopo la nascita del bambino. Nello stesso anno, la donna, querela l'ex, accusandolo di aver pubblicato su Facebook alcuni post e commenti dal contenuto diffamatorio. Frasi che riguardavano accuse che l'uomo faceva alla donna sulle modalità di educazione del bambino (affidato alla mamma) e offese «classiche
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