Per la condotta colabrodo maxi risarcimento al Comune

Per la condotta colabrodo maxi risarcimento al Comune
di Mario DILIBERTO
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Martedì 2 Agosto 2016, 12:29 - Ultimo aggiornamento: 15:04
Un maxi risarcimento per la condotta sottomarina colabrodo. Oltre ventitrè milioni di euro, più interessi, da pagare al Comune per un’opera realizzata male e che ha funzionato anche peggio. Ma è stata pagata per intero per un totale di dieci miliardi di lire, oltre cinque milioni di euro, scuciti sull’unghia e sino all’ultimo centesimo dal cassiere pubblico.
Il robusto indennizzo è stato disposto dal giudice Annagrazia Lenti, con un verdetto che ha chiuso il giudizio civile avviato nel 2004 da palazzo di città. Controparte l’associazione temporanea di imprese che si aggiudicò la costruzione di quelle tubature poggiate sul fondale.

La condotta avrebbe dovuto risolvere il problema dello smaltimento dei reflui, portando al largo i liquami convogliati e trattati nel depuratore Gennarini. E invece si ruppe quasi subito, liberando in mare liquami a poca distanza dalla costa. Una storia lunga oltre vent’anni, classico esempio di buone intenzioni finite male. Perché quella condotta avveniristica si risolse davvero in un flop. Proprio per le spaccature lungo il percorso che trasformarono la tubatura in una gruviera a cominciare da un pugno di metri dalle scogliere di San Vito. E ora per quel buco nell’acqua dovranno pagare le imprese indicate come responsabili, oltre ai funzionari che seguirono la prima fase del procedimento amministrativo. Per tutti il salatissimo conto depositato ieri dal giudice Lenti, anche se si tratta di un verdetto di primo grado che sarà certamente appellato: dovranno restituire gli oltre cinque milioni di euro introitati per quella commessa, più danni. Il tutto per un totale di 23 milioni a cui vanno sommati gli interessi. La sentenza del giudice Lenti ha chiuso un procedimento dal cammino accidentato quasi come quello dei liquami nella condotta sforacchiata.
 
Il punto di partenza, però, è da individuare nella volontà della giunta dell’epoca, guidata dal sindaco Rossana Di Bello, di recuperare quell’investimento da dieci miliardi di lire visto il risultato ben lontano da quello che ci si era prefissati. In realtà sui lavori, con un progetto che risale addirittura al 1993, si sono innescati due giudizi. Il primo in sede penale, in cui sono stati chiamati a rispondere sei imputati, tra responsabili delle imprese appaltatrici e funzionari pubblici. Con responsabilità acclarate, ma con conseguenze spazzate via dalla prescrizione. Il procedimento penale si è intrecciato quello in sede civile avviato nel 2004 con il mandato conferito all’avvocato tarantino Antonio Altamura. È stato il legale per oltre dodici anni a mantenere il timone della durissima battaglia, sospesa a ripetizione, con varie motivazioni. Nella guerra di carte bollate però, l’avvocato ha puntato subito alla risoluzione del contratto con le imprese accusate di aver gestito la realizzazione dell’opera in maniera negligente. In aula ci si è sfidati a colpi di perizie e consulenze.

Con i riflettori dello studio legale, completato dagli avvocati Emanuele Altamura e Vito Antonio Altamura, puntati da sempre su quelle falle nella condotta. Proprio quegli squarci e i liquami sprigionati hanno rappresentato in sede civile e penale l’argomento più forte per contestare i lavori e invocare il risarcimento dovuto alle casse comunali. Negli atti si fa riferimento al collaudo non avvenuto dell’opera, ma anche all’insistenza con la quale la direzione dei lavori pubblici, dopo il via libera dell’appalto, ha chiesto conto alle imprese costruttrici di quell’opera che non funzionava. Una tallonamento fatto per vie legali con la volontà politica che ha coinciso con quella dei dirigenti.

Tante le cose a non quadrare nella gestione di questa opera pubblica. In prima fila proprio le modalità seguite per la realizzazione della condotta che ha subito mostrato le sue crepe. Arrivando a sgretolarsi ben prima del suo punto di sbocco e ad una profondità relativa. In un punto la forza delle maree, o per converso la debolezza della tubatura, avrebbe aperto una falla evidentissima. Con alcuni pezzi della condotta spostati di oltre quaranta metri sul fondale. Da quelle voragini, poi, sono usciti i reflui che sono finiti in mare senza essere depotenziati e, purtroppo, ben lontani da dove erano destinati. Il giudizio civile, infatti, è servito anche a stabilire la bontà del progetto redatto nel lontano 1993. Perché la condotta nelle sue intenzioni davvero avrebbe potuto segnare una svolta nella gestione dello smaltimento dei liquami. Grazie allo sbocco in alto mare fatto di oltre trecento ugelli.

Un sistema che avrebbe frazionato ulteriormente il materiale depurato, spargendolo in mare al largo e in un tratto spazzato dalle correnti. E questo avrebbe contribuito ad annullare l’impatto ambientale. Invece quelle fratture nel percorso hanno consegnato un risultato negativo. Con tanto di danno all’ambiente. Argomentazioni che lo studio Altamura ha sostenuto prima in sede penale, sino alla prescrizione dichiarata in appello. E poi in sede civile. In questo procedimento, dopo alcune interruzioni, dovute anche al trasferimento del giudice incaricato, la vera svolta è giunta con l’affidamento della causa alla dottoressa Lenti. Il magistrato ha condotto il procedimento nei binari che hanno consentito una accelerazione sino alla definizione, con il deposito della sentenza avvenuto ieri. Per le società convenute e i loro rappresentanti un conto da 23 milioni di euro, più interessi. Un risarcimento a più voci, in cui campeggiano anche quelle di danno ambientale e rimozione dell’opera inutile dal fondale di San Vito.
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