L’ombra del pizzo sulla città: «Ma le vittime non sono sole»

L’ombra del pizzo sulla città: «Ma le vittime non sono sole»
di Alessandra MACCHITELLA
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Venerdì 17 Febbraio 2017, 07:26 - Ultimo aggiornamento: 18:04
«Il racket a Taranto? Probabilmente è l’obiettivo più sensibile dell’area jonico salentina, dove invece si assiste maggiormente all’usura». Lo ha dichiarato il coordinatore delle associazioni antiracket Paride Margheriti ieri mattina in occasione del convegno “Racket: c’è chi dice no!” nell’università in via Duomo. Nel corso dell’incontro rivolto agli studenti Margheriti ha aggiunto: «Siamo presenti da poco su questo territorio, la nostra associazione nasce cinque anni fa nel brindisino dopo una denuncia alla Sacra Corona Unita e ora si sta costituendo a livello nazionale. Faremo una ricognizione reale dei problemi di Taranto ma posso già dire che il racket è presente e tenteremo di fare squadra con gli operatori economici anche attraverso campagne di sensibilizzazione, perché da racket e usura si può uscire, ci sono mezzi messi a disposizione dallo Stato, gli imprenditori non sono soli. Dopo la denuncia ci può essere una riabilitazione economica e la nostra associazione offre supporto amministrativo, legale e psicologico».
 
L’evento è stato introdotto dal rappresentante degli studenti del dipartimento jonico Antonio Nardella: «Quelli affrontati sono temi che gli studenti di giurisprudenza trovano nel percorso di studi e spero che negli incontri diretti con i protagonisti di queste storie possano trarre riflessioni diverse dallo studio di 200 pagine». Una testimonianza importante è stata fornita dal sindaco di Casapesenna Marcello De Rosa: «Sono un testimone di giustizia e vivo sotto scorta. Nel 2012 denunciai il clan da imprenditore e da sindaco ho subìto una rapina a mano armata con sequestro di persona. Quattro banditi incappucciati sono entrati nella mia casa immobilizzando mia moglie, mia cognata e la babysitter e minacciando con un’arma da fuoco le mie due bambine che ho trovato ferme sul divano. Hanno aspettato che arrivassi a casa prima di andare via con la refurtiva, è stato un avvertimento, volevano dirmi che sono più forti dello Stato. Un tempo si diceva che la mafia non toccava donne e bambini, invece lo hanno fatto dimostrando la loro debolezza. Voglio trasmettere ai giovani che la mafia si può combattere abbattendo la paura e con la cultura si può sconfiggere tutto perché il malaffare è figlio dell’arretratezza culturale, bisogna parlare, lo Stato non lascia da soli. Dopo 16 anni di latitanza e l’arresto del capo clan Michele Zagaria, eravamo abituati a un sistema di omertà, da sindaco ho emanato un decreto di demolizione della casa paterna di Zagaria, per dare un segnale di cambiamento. Oggi il nostro territorio non è più solo terra dei fuochi e di camorra ma anche di brava gente. Trovo forza nella mia famiglia, nelle mie bambine di 5 e 6 anni e in mia moglie che si chiede “Perché è toccato a te?”. Io allora mi domando perché è toccato a Borsellino o a Falcone, se è servito a qualcosa lo dirà la storia». È intervenuto anche il docente di diritto processuale penale Nicola Triggiani: «Questo incontro è un ulteriore tassello di un percorso portato avanti dal dipartimento jonico già da qualche anno. Abbiamo avuto ospiti come la sorella di Lea Garofalo, Pino Masciari e don Luigi Ciotti, crediamo molto a un profilo di educazione alla legalità. Vorrei ci fosse più chiarezza sulla differenza tra testimone e collaboratore di giustizia. Il collaboratore è un soggetto appartenente a un’associazione criminale che a un certo punto del suo percorso si pente e collabora con la giustizia, il testimone è un cittadino onesto che con coraggio decide di denunciare un reato e rendersi parte attiva nel perseguimento. Circa un anno fa è stato presentato il disegno di legge n. 2176 che disciplina la figura del testimone di giustizia, purtroppo è ancora fermo ma è importante perché potrebbe incentivare altre denunce garantendo una protezione effettiva». Le conseguenze per le vittime del racket sono pesanti anche a livello psicologico, come ha spiegato la psicologa Francesca Cafarella: «Dal momento della denuncia al cambio di vita e allo scombussolamento della famiglia che vive sotto scorta, ci vuole molto coraggio per affrontare la paura ma è un sacrificio che si può compiere nel nome della legalità e della giustizia». Il convegno è stato moderato dal docente di diritto ecclesiastico Paolo Stefanì.
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