Taranto, il sogno di Giò Ponti naufragato in una vasca

Taranto, il sogno di Giò Ponti naufragato in una vasca
di Anita PRETI
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Lunedì 4 Settembre 2017, 06:30 - Ultimo aggiornamento: 10 Settembre, 21:38
Una vela che si staglia nel cielo, fatta con una filigrana di cemento, perché la luce sia libera di passare e volendo, diceva scherzando il suo progettista, l’architetto Gio Ponti, gli angeli “vi potessero sostare”. E, sotto la vela, il mare, Jonio, il Mediterraneo, simbolicamente racchiuso in quelle vasche dove il profilo dell’edificio si riflette.
Povera Taranto. Non ha occhi per vedere, né orecchie per sentire. La sua invalidità culturale prende di nuovo forma nelle ore occupate dalla polemica sullo stato di conservazione della Concattedrale. Non l’interno, bensì la sua propaggine esterna, le vasche, lo scrigno del mare. L’arcivescovo di Taranto, monsignor Filippo Santoro, ha voluto, proprio in questi giorni, ricordare quanto il governo della chiesa abbia fatto in questi anni ed in mesi recenti, per provvedere alla tutela dello spazio di culto di questo immenso bene. Ma l’area circostante è di competenza comunale. Ed è sotto gli occhi di tutti, passanti, fedeli, automobilisti, il degrado in cui versano quelle vasche prospicienti la chiesa trasformate in un puzzolente acquitrino. Nessuno scandalo, s’intende: è la stessa sorte toccata, al capo opposto della città, alle vasche che completano il rinnovato assetto di piazza Fontana. La Concattedrale è opera di Giò Ponti, uno dei massimi architetti del Novecento; piazza Fontana è opera di Nicola Carrino, uno dei massimi scultori del nostro tempo. Due nomi di fama e di valenza internazionale. Appunto: mondiale, non locale.
 
Le loro opere, che figurano nei manuali di arte ed architettura, sono schiacciate in questo momento sotto il peso dell’incuria. Pulite e continuamente ripulite, nei loro molti decenni di vita, le vasche, sia della Concattedrale, sia di piazza Fontana, potrebbero ormai essere considerate l’emblema di un divertente braccio di ferro fra l’amministrazione comunale e la comunità. La prima purtroppo spesso perdente in questo duello. Perché se il Comune, con la competenza sui luoghi, dovesse anche decidere di provvedere alla immediata pulizia, in un tempo brevissimo tutto tornerebbe come è oggi nella città in cui ogni forma di reciproco controllo sul bene comune ha il sapore di una bestemmia.
Allora si corre a sfogliare l’albero genealogico dei giudizi (e dei pregiudizi su Taranto) e salta fuori un assunto di Cesare Brandi, il Pellegrino di Puglia, quel fine viaggiatore che amava questa terra più di ogni altra già a lui cara. «È una città che posta in un sito singolarissimo, potrebbe essere stupenda: e invece è squallida». Lo scriveva nel 1977 quando si chiudeva la seconda ed ultima stagione d’oro della comunità (dopo quella del Premio Taranto). Lo confermano Franco Porsia e Mauro Scionti nel loro studio dedicato alla capitale dello Jonio (“Le città nella storia d’Italia: Taranto”, Laterza): «Con i primi anni Settanta il malessere culturale si estende alla politica e all’economia»; preludio di un futuro disastro.
Politica ed economia, angeli e demoni insieme, nei decenni precedenti hanno intanto spostato il baricentro cittadino in direzione di Lecce. Nasce il centro direzionale, familiarmente detto “la Bestat” (dal nome del costruttore, gruppo immobiliare romano), non un quartiere ma quasi. Cittadini in più per chi fa statistica; per un pastore di anime, un nuovo gregge di fedeli. E tale si sentiva il pastore Guglielmo Motolese, arcivescovo di Taranto dal 1962 al 1987. Un anno dopo la prima data sale al soglio pontificio Paolo VI che ama l’arte. C’è già stato il Concilio Vaticano II. La Chiesa abbraccia il mondo in maniera ogni giorno più nuova. Guglielmo Motolese, proprio in quel 1962, pensa già ad una nuova Cattedrale per la Taranto modernissima che sta nascendo ad est. Viene informato l’Istituto Internazionale di Arte Liturgica che sovrintende ai progetti ed il primo incarico viene affidato a Pier Luigi Nervi. Ma il grande architetto declina prestissimo l’invito ed allora, nel 1963, entra in scena Gio Ponti, esperto anche di architettura religiosa. Nato a Milano nel 1891 (dove scompare nel 1979), è il maestro assoluto della nuova architettura e del design italiani. Ha progettato il grattacielo Pirelli così come ha disegnato decine e decine di oggetti d’arte applicata. Ha realizzato opere in tutto il mondo, ha insegnato al Politecnico di Milano, fondato la rivista Domus, diretto le Triennali.
Il perfezionamento del progetto della Concattedrale e le sue modifiche proseguono nel tempo. La posa della prima pietra avviene nel 1967. Ponti comincia a fare amicizia con Taranto mentre il cantiere alza la vela di 53 metri e si realizzano, come per un ricamo, le aperture a diamante (come quelle dell’edificio commissionato dall’editore Livio Garzanti a Forlì, perché la luce entri e si innalzi come “un fortissimo musicale”) e mentre si prepara l’interno per tremila fedeli. Nel carteggio con il suo illustre committente, Ponti scrive: “Alzare mura che siano inestinguibili intime virtù delle creature umane”. I fedeli entrano nella Concattedrale Gran Madre di Dio il 6 dicembre 1970.
Quello che accade ora, l’attuale degrado, è un insulto alla civiltà e alla cultura. Accompagnato dal timore che eventuali lavori di ripristino (come quelli avviati dall’amministrazione Cito nel 1995 dopo la devastazione del 1989) non durino che lo spazio di un mattino, citando la celebre “Consolation à M. du Périer” di François de Malherbe, poeta francese vissuto fra il Cinquecento ed il Seicento, la cui statua adorna, a Parigi, il cortile interno del Louvre ed è quindi obbligatoriamente sotto gli occhi dei tarantini-turisti. Categoria in perenne espansione mentre la giusta polemica in atto non fa che minare, una volta di più (senza necessità alcuna), l’aspirazione ad una Taranto turistica, talora più nuvola di fumo che fattibile progetto. Per il quale, in questo secondo caso, sarebbe possibile regalare al visitatore un itinerario attraverso le opere di Ponti e Carrino, ma anche attraverso le case Italsider del quartiere Paolo VI, progetto degli Studi Nizzoli (che avevano realizzato le case Olivetti a Ivrea) e il palazzo dell’Inam costruito dagli architetti Chiaia e Napolitano; e persino attraverso l’edilizia di stampo fascista dell’architetto Brasini (il Palazzo del Governo). Un itinerario contemporaneo nella città della Magna Grecia.
 
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