«Non abbiamo più dignità come padri di famiglia, come uomini, non abbiamo più niente. Aspettiamo ancora, sono 12 anni che stiamo aspettando». Lo sfogo di un operaio dell'ex Ilva davanti ai cancelli della grande fabbrica sintetizza l'umore di tanti colleghi che vivono nell'incertezza, temendo per il proprio futuro occupazionale. La fabbrica viene definita «al collasso» dai sindacati e la mancanza di un accordo tra governo e ArcelorMittal crea ulteriori tensioni tra i lavoratori. «Qui non si produce più acciaio - dichiara una tuta blu - ma cassa integrazione». L'azienda del resto ha già inoltrato una richiesta al Ministero del Lavoro per l'utilizzo della cigs in deroga per il 2024 che non prevede l'esame congiunto con le organizzazioni sindacali. «L'atteggiamento della multinazionale? Non ne parliamo», afferma un altro lavoratore, per il quale «l'unico modo per ottenere qualcosa è rivolgersi a un acciaiere italiano che possa investire nel nostro futuro».
I commenti
La multinazionale ArcelorMittal, aggiunge un delegato sindacale, «si è presentata con il volto che conosciamo, confermando di essere totalmente inaffidabile. Il governo non può continuare a essere ostaggio, mentre un'intera comunità paga un prezzo altissimo in termini di salute e ambiente». La crisi si riverbera ovviamente sulle ditte dell'indotto. Nelle ultime ore, a quanto si è appreso, la banca Ifis, delegata da Acciaierie d'Italia alle operazioni sulle fatture, ha interrotto la cessione dei crediti alle aziende che ne avevano fatto ricorso. Da giorni, peraltro, gli autotrasportatori che lavorano con l'ex Ilva e reclamano i ritardi nei pagamenti dello scaduto sono in presidio davanti alla portineria C dello stabilimento. «Le nostre aziende - racconta un imprenditore - sono in gravissime difficoltà, tanto da non essere riuscite a pagare le tredicesime ai propri dipendenti.