Appalti e nomine politiche: la Scu jonica controllava tutto

Appalti e nomine politiche: la Scu jonica controllava tutto
di Mario DILIBERTO
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Mercoledì 5 Luglio 2017, 10:57 - Ultimo aggiornamento: 17:50

Un trattato sulla storia della Scu. E sull’abbraccio tra la quarta mafia e gli amministratori delle realtà investite dalla bufera di manette scatenata all’alba di ieri dalla Polizia di Taranto.
In un quadro in cui non sempre è la mafia a bussare alla porta dei Comuni. Anzi, lasciano di ghiaccio gli episodi in cui sono gli uomini della società civile a rivolgersi ai “mammasantissima” per invocare aiuto al fine di realizzare ambizioni politiche o iniziative economiche.
«Si tratta di una triste constatazione, ma è una realtà che è balzata subito agli occhi - ha detto ieri il Questore di Taranto Stanislao Schimera, nel corso della conferenza stampa, con il capo della Mobile jonica Carlo Pagano e il suo vice Giovanni Di Maggio, convocata per illustrare la pioggia di arresti.
Così il blitz, non casualmente battezzato “Impresa”, ha regalato uno scenario che ricorda le realtà siciliane narrate da Sciascia. È il caso di Antonio Campeggio, uno dei boss che in quella terra di mezzo tra Taranto, Brindisi e Lecce, ha raccolto il testimone dei clan storici della sacra corona unita, che nella versione jonica si è trasformata in “sacra corona libera”. Al netto del nome, la certezza è il tallone sotto il quale la mala avrebbe cercato di tenere amministrazioni, commesse pubbliche, insieme ai business dello spaccio e del pizzo.
Manduriano di quarantasette anni, conosciuto con il soprannome di “Tonino scippatore”, Campeggio negli atti della Dda appare come un novello don Mariano Arena. A cui ci si rivolge per ottenere favori, anche se lo “scippatore” non disdegna di intervenire per imporre il rito del racket. Ecco quindi che a Campeggio si sarebbe rivolto Nicola Dimonopoli, medico in servizio al pronto soccorso dell’ospedale di Manduria, da ieri agli arresti domiciliari.
Eletto nel consiglio comunale della cittadina messapica con quattrocento voti, «grazie al sostegno dell’organizzazione criminale» chiosano gli inquirenti, il dottore ambiva alla poltrona di presidente del consiglio comunale. Un obiettivo per il quale non avrebbe esitato a rivolgersi ancora al “padrino”. «Dimonopoli - si legge negli atti - chiede a Campeggio Antonio di intervenire in suo favore, perché la sua stessa coalizione voleva affidargli un assessorato anziché la carica di presidente del consiglio comunale».
E non è l’unica occasione in cui si sfata l’abituale canovaccio della mafia che si infiltra nel tessuto economico della società, certificando il percorso inverso. Oltre al medico politico, infatti, nell’ordinanza spunta anche la “supplica” di un imprenditore, rivolta sempre a Campeggio. Si tratta del titolare di una ditta che si è aggiudicato un appalto pubblico nonostante non abbia «le carte a posto». Un tallone d’Achille sul quale punta un concorrente per proporre ricorso sull’aggiudicazione della commessa e magari tornare in pista, sventolando la bandiera della legalità. Un pericolo che l’imprenditore non esita a contrastare scommettendo tutto sulla forza della mala.
Una “mano nera” invocata persino dai giostrai di Manduria quando si scontrano con il rifiuto a poter posizionare le proprie attività in un terreno particolarmente ambito e redditizio.
Flash che regalano un nitido spaccato dell’egemonia che la sacra corona unita sarebbe riuscita ad imporre su quella fetta di Salento. Giocando di sponda con amministratori spregiudicati, inchiodati insieme ai boss dai responsi delle intercettazioni telefoniche e ambientali. Ore ed ore di conversazione che i poliziotti hanno ascoltato per mesi. Riuscendo a ricostruire i movimenti della quarta mafia. Una organizzazione che in provincia di Taranto si sarebbe radicata dai tempi del patto con i boss mesagnesi. Sino a partorire una costola autonoma che negli ultimi anni si sarebbe sviluppata grazie a tre tentacoli nella provincia di Taranto, operativi a Manduria, tra San Giorgio Jonico e Grottaglie, e a Sava.
Oltre a Campeggio a tirare le fila sarebbero stati Francesco D’Amore, sangiorgese di 57 anni, e Giuseppe Buccoliero, alias Peppolino Capone, savese di 49 anni.

Sono loro i capibastone della frangia della Scu colpita con la raffica di arresti della Squadra Mobile tarantina. Sono indicati come i terminali dei business classici della mala salentina. Con in testa il racket delle estorsioni e il conseguente riciclaggio di introiti in attività commerciali e aziende di vari settori. Imprese le quali si sarebbe costantemente tentato di azzannare commesse pubbliche. Una contestazione che si intreccia con quella di scambio elettorale mafioso. E non solo. In questo senso spicca la posizione di Massimilia

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