Tarantino stavolta sghignazza ma non diverte

Tim Roth, Kurt Russell e Jennifer Jason Leigh in "The Hateful Eight" di Quentin Tarantino
Tim Roth, Kurt Russell e Jennifer Jason Leigh in "The Hateful Eight" di Quentin Tarantino
di Fabio Ferzetti
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Giovedì 11 Febbraio 2016, 13:14

Tarantino contro Tarantino. Quando un regista tiene a battesimo uno stile (o un genere), spesso iniziano i guai. Fellini è stato davvero Fellini finché non ha iniziato a essere felliniano. Tarantino rischia di perdersi, o di confondersi con i suoi emuli (Robert Rodriguez, poniamo), proprio perché il pubblico ormai sa fin troppo bene cosa aspettarsi. Lui stesso è così consapevole del rischio da aprire The Hateful Eight con un cartello pomposo e forse autoironico («L’ottavo film di Quentin Tarantino»).

Ma il pericolo resta: fin dove si possono spingere le spericolate nozze tra il Pulp e la Storia, inaugurate da Inglorious Basterds e Django? Non si tratta, è ovvio, di banale “rispetto” per l’epoca o i fatti. Il cinema “tarantinato” non prevede simili piccolezze. Gli ultimi due film dell’autore di Pulp Fiction gettavano una luce nuova e cruda sul nazismo e sul razzismo proprio perché prendevano letteralmente a mazzate la Storia.

Ma The Hateful Eight, con il suo look antiquariale (70 mm., ouverture musicale - il western spaghetti è cugino dell’Opera - intervallo, etc.), porta il gusto tarantiniano per l’alternanza tra azione frenetica e dialoghi ipercesellati dalle parti dei gialli a porte chiuse di Agatha Christie. Già. Dopo un primo tempo tutto giocato sulla presentazione dei personaggi, le otto carogne del titolo, che non si conoscono tra loro, si ritrovano nel chiuso di una locanda sperduta tra le nevi del Wyoming. E inizia un lento, lentissimo gioco al massacro, che riporta alle atmosfere e alle truculenze di Reservoir Dogs, con tonnellate di autocompiacimento in più.

Nessuno, questa era un’idea divertente, sa esattamente chi siano gli altri. Anche se il West ha il suo star system, dunque almeno i due cacciatori di taglie, il bianco John Ruth detto il Boia perché consegna sempre i prigionieri vivi (Kurt Russell), e il nero Marquis Warren che invece li ammazza subito (Samuel L. Jackson), sono noti a tutti. Così come la “preda” di Ruth, la famigerata Daisy Domergue (Jennifer Jason Leigh). Sugli altri invece non ci sono certezze, il che crea un comico balletto di credenziali, mandati, dichiarazioni, con cui ognuno cerca di affermare la propria identità (la lettera autografa del presidente Lincoln che l’ex-nordista Jackson conserva come una reliquia è la chiave di volta del film).

Sullo sfondo, anzi in primo piano, ossessivamente ribadito da dialoghi e azione, c’è infatti il marchio originario del razzismo e della violenza, infamia da cui l’America non si libererà mai. La guerra civile è finita da poco, l’odio è ancora palpabile, nessuna riconciliazione è possibile, i negri sono negri e come tali vengono trattati, in pace e in guerra (si veda il vecchio generale sudista Bruce Dern, tanto mite in apparenza...).

Così, mentre le maschere iniziano a cadere, e le pistole a cantare, Tarantino dà fondo a tutte le sue ossessioni, accanendosi con insistenza, anche fisicamente, sul personaggio più spregevole, che è proprio la prostituta Jason Leigh. Ma senza mai fugare quella sgradevole sensazione di gratuità e a tratti di vero e proprio delirio che rende il film non solo brutto, effetto in parte voluto, ma soprattutto incredibilmente noioso.
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