Un disperato, un selvaggio, un reietto. È il protagonista di “Pericle il Nero”, il film diretto da Stefano Mordini e tratto dal romanzo di Giuseppe Ferrandino. A interpretarlo, Riccardo Scamarcio. La pellicola, presentata ieri al Db d’Essai di Lecce per Circuito d’Autore, nel corso di un incontro condotto dalla giornalista Valeria Blanco, è l’unico film italiano in concorso al Festival di Cannes.
Il progetto del film era andato a monte due volte, prima di finire nelle mani di Mordini. Nel 2005 Abel Ferrara lo aveva proposto proprio a Scamarcio, ma l’idea non si concretizzò. Tre anni fa l’incontro con il regista di “Acciaio” (2012) ha dato vita ad un noir che racconta l’emancipazione di un personaggio sgradevole e violento, che si crede incapace di amare e invece riscopre - nella fuga - la propria umanità. E in questo mondo fatto di ricatti, stordimenti da droghe e riscoperte, anche l’attore ritrova se stesso.
Scamarcio, undici anni fa la proposta di Ferrara. Pericle era scritto nel tuo destino?
«Mentre leggevo questo romanzo mi è venuto l’istinto di rileggerlo ad alta voce. È una cosa insolita, però avevo l’impressione di leggere i pensieri del personaggio, alcuni dei quali, rimasticati e riscritti, sono finiti nel film. Sentivo che dentro la scrittura c’era una musica, ma dovevo interpretarla. Questa musica è proprio il ritmo del pensiero di Pericle. Nel suo modo di pensare è racchiusa la fragilità di un uomo tenuto in una gabbia, usato e sfruttato da un gruppo di criminali come un Pit Bull da combattimento. Un disperato senza disperazione, poiché non consapevole della sua condizione. Un selvaggio che, ad un certo punto, compie un errore e scappa. Nella fuga, in realtà, comincia a vivere e a capire che può amare e - addirittura - essere amato. Questo è un film sull’amore raccontato in una maniera poco romantica, rivendicando il diritto di considerare la parte animalesca che in genere viene sopita».
Cosa ti ha dato e cosa ti ha tolto il ruolo del produttore?
«Sicuramente mi ha tolto dieci anni di vita (ride, ndr). Il lavoro dell’attore è particolare. Tutti quanti pensano che sia il luogo dove uno può celebrare il proprio ego. È così fino ad un certo punto. Al contrario un attore, per essere veramente libero in scena, deve perdere se stesso, abbandonarsi, non guardarsi, non essere consapevole di ciò che si sta facendo. Ecco: il lavoro di produttore mi ha tolto la concentrazione, mi ha permesso di distrarmi, e in questo film credo di aver fatto meglio il mio lavoro di attore».
Questo è uno dei personaggi più violenti che hai interpretato. Ma hai detto di sentirti vicino ad un reietto come Pericle. Come mai?
Tra poche ore sarai a Cannes. Qual è lo stato d’animo?
Scamarcio: «A volte anch'io, come Pericle, mi sento un reietto»
di Maria Grazia FASIELLO
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Martedì 17 Maggio 2016, 13:01 - Ultimo aggiornamento: 13:16
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