Urso: «Zero rapporto con il territorio e impegno troppo episodico»

Urso: «Zero rapporto con il territorio e impegno troppo episodico»
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Sabato 26 Settembre 2015, 22:46 - Ultimo aggiornamento: 27 Settembre, 18:11
di Francesco G. GIOFFREDI



Una questione di metodo. E di cordone con i territori, con la base elettorale, sempre più sfilacciato. Un faro puntato sulla politica, incapace di dare risposte agli impulsi dal basso: «I parlamentari sono figli di nessuno», è l’amara diagnosi di Giacinto Urso, per un ventennio deputato Dc.



Onorevole, la delegazione parlamentare pugliese dà l’impressione di non sapere - o non potere - incidere a Roma quando s’inasprisce il tasso di conflittualità centro-periferia. E le istanze del territorio rischiano di arrivare depotenziate a palazzo Chigi o nei centri decisionali nevralgici. Il caso Frecciarossa è per certi versi emblematico. È una debolezza strutturale o un deficit di personale politico in senso stretto?

«Certamente alla base di tutto c’è una profonda crisi politica, che coinvolge anche il modo di espletare il proprio mandato. Sul piano parlamentare è una diretta conseguenza del modo con cui sono nominati, o prescelti, in anticipo deputati e senatori: il risultato è una politica debole che non ha nemmeno profondità di pensiero, capacità di studiare i problemi, preparazione».



Una vulnerabilità che deriva dai sistemi elettorali. O forse non solo: il rapporto con i territori di riferimento è sempre più impalpabile.

«I parlamentari da qualche lustro sono figli di nessuno: non hanno coperture partitiche, sono inghiottiti da oligarchie sempre più ristrette o da dispostismi di ordine personalistico. Si risulta eletti solo in funzione del piazzamento in lista. E poi si è spento, o attenuato, il rapporto fecondo con gli elettori, anche loro sempre più distratti e poco partecipativi. In queste condizioni battere i pugni sul tavolo non è facile. Anche perché di fronte, come nel caso del Frecciarossa, ci sono rappresentanti e boiardi dello Stato che più che rispondere al Parlamento, lo fanno a chi li ha nominati».



Ritiene che questo gap sia più ampio per il Mezzogiorno, rispetto al ricco Nord o a regioni strategiche come Lazio e Toscana?

«Credo sia un problema generalizzato su tutto il territorio nazionale, ma è ovviamente più marcato quando si rappresentano delle zone dense di bisogni e attese. Se poi arrivano segnali come quello del Frecciarossa...è una vicenda che turba, considerando peraltro che il governo ha promesso di riprendere le politiche per il Mezzogiorno. Non solo: in questo caso è una discriminazione all’interno dello stesso Sud, il che avvilisce ancor di più».



Trenta o quarant’anni fa tutto questo sarebbe successo?

«I problemi vanno sempre letti sulla base dei tempi che si vivono. Ma posso fare un esempio: diversi anni fa si condusse la battaglia sull’elettrificazione e sul doppio binario per il nostro territorio. Una battaglia sempre rivendicata dall’intera classe politica del Sud e salentina, che ebbe una sua metodologia. Di certo c’era una prepotente effervescenza di un pensiero meridionalista molto acuto che mobilitava le coscienze degli eletti. I problemi erano dibattuti in lungo e largo nei partiti, ma in un clima di compattezza, senza barriere politiche. E non era semplice. Nel caso di elettrificazione e doppio binario, con pazienza, in diversi esercizi finanziari e tramite la Cassa del Mezzogiorno si fece comprendere il problema riuscendo a risolverlo. Ma diciamo che c’era una certa petulanza nell’interessamento...».



Adesso si viaggia troppo sull’episodicità?

«Sì, temo di sì. Ogni tanto ci si ricorda di un problema, magari si segue diffusamente, ma tutto diventa evanescente, d’improvviso le questioni scompaiono. Salvo poi passare ad altro, e ricominciare. Ecco: mancano continuità e perseveranza. Senza dubbio il Sud ha bisogno di risorse, ma non vedo più un meridionalismo trainato da spiriti eletti che un tempo preparavano già sui territori il da farsi per il domani».



Il parlamentare d’oggi potrebbe dire a lei, onorevole di ieri: «Caro Urso, ma un tempo avevate una quantità di risorse finanziarie che permettevano di accontentare tutti».

«Sì, se mancano le risorse finanziarie la buona volontà viene incrinata. Ma non credo ci sia una deficienza assoluta di mezzi: penso alle tante risorse europee. In realtà manca altro, una certa premura meridionalista. Né il problema del Frecciarossa - per tornare al tema di questo periodo - si può risolvere elargendo un contributo pubblico per mettere l’azienda al riparo da vere o supposte perdite. Trenitalia è lì per dare conforto a un’utenza e soddisfare le esigenze di zone fortemente svantaggiate, altrimenti il senso dello Stato dove è? Ora portare quel treno a Lecce è una mollica sul desco vuoto del Sud: ma se non si può ottenere questo, immaginiamo cosa può succedere su questioni più grandi. E se il territorio dovesse vincere la battaglia, non vorrei si entrasse nell’ottica del “siamo già intervenuti per voi”...».



Oggi lei come agirebbe su un dossier come quello del Frecciarossa? Applicherebbe metodi e approcci del passato?

«Innanzitutto agirebbe un collettivo di deputati e senatori per parlamentarizzare il problema e richiamare l’attenzone del governo. Magari facendo risorgere, finalmente, l’idea di Grande Salento: è un punto chiave. Il primo, vero salasso c’è stato con la cancellazione della Circoscrizione elettorale Brindisi-Lecce-Taranto: sprigionava una “gara” e una mutualità che tutelava tutto il territorio, e ci scambiavamo anche di ruoli. Penso poi alle parole del manager di Trenitalia, Elia: ai tempi della Cassa del Mezzogiorno, Menichella o Vanoni non credo avrebbero mai parlato di “intervento antieconomico”, diversamente non avremmo avuto le grandi aspirazioni e i risultati concreto raggiunti. Il problema è che prima i dirigenti pubblici rispondevano allo Stato e alla politica, ora pendono dalle labbra di chi li ha nominati. E per questo le assicuro che se Renzi dicesse che il Frecciarossa deve arrivare a Lecce, quel treno arriverebbe. Ma questa non è più politica».