La parola ai candidati/Rizzi: espropriamo le imprese e diamole ai lavoratori

Michele Rizzi
Michele Rizzi
di Francesco G. GIOFFREDI
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Venerdì 22 Maggio 2015, 14:22 - Ultimo aggiornamento: 14:23
Al bis, senza paura. E con la stessa cassetta degli attrezzi: “espropri proletari” riveduti e corretti (ma non troppo), mano pubblica a governare i processi pro- duttivi e ogni minima piega dei servizi essenziali, reddito sociale, sabotaggio dalle fondamenta del sistema capitalistico. Michele Rizzi, il duro e puro di Alternativa comunista, cinque anni dopo ci riprova.

Sul suo lei blog scrive: «Non moriremo renziani». Ma lo dicono molti altri, da Vendola in poi. Se la promessa, e premessa, è questa, perché allora ostinarsi all’isolamento?

«Per altri è uno slogan, per noi no. I vendoliani dicono di essere alternativi a Renzi, ma si alleano con l’uomo di Renzi in Puglia. Né L’Altra Puglia ci pare coerente rispetto a noi, che costruiamo vertenze, siamo nelle lotte del mondo della scuola, contro il Jobs Act, la chiusura degli ospedali e i finanziamenti pubblici alle multinazionali. L’Altra Puglia è diretta al 90% da Rifondazione Comunista che ha governato 8 anni su 10 col Pd di Emiliano e con Vendola, e a Bari 5 anni su 10 con lo stesso Emiliano, e in molte ammini- strazioni locali governa col Pd, penso a Galatina. O si è realmente contro una certa politica economica, contro un’idea di società e contro gli interessi lobbi-tici legati al Pd, oppure niente».

Insomma: per voi pesa di più il curriculum d’alleanze, che la prospettiva futura, che pure per certi versi vi accomuna ad altri pezzi di sinistra.

«Non basta il solo richiamarsi alla lotta contro l’austerity e al mancato pagamento del debito. Certo, da parte nostra c’è anche questo, ovvio: il piano europeo e mondiale comporta pesanti attacchi alle fasce più basse, con tagli ai servizi sociali. Ma per noi è il capitalismo che va distrutto. E non certo con l’ottica di Tsipras: non puoi scendere a patti con l’usuraio».

Lei ha sempre rimarcato la vostra continua presenza nelle vertenze lavorative pugliesi più calde. Eppure la Regione non le ha certo ignorate, spesso chiudendo accordi cruciali a tavoli nazionali e territoriali e pro-muovendo intese su riorganizzazioni aziendali e ammortizzatori sociali. Ma in cosa l’amministrazione Vendola ha fallito?

«Abbiamo seguito e seguiamo tante vertenze, sul campo e al fianco degli operai. Crediamo sia assolutamente sbagliata l’ottica del finanziamento a pioggia alle imprese, soprattutto alle multinazionali».

In realtà i Contratti di programma hanno permesso di spendere bene i fondi eupopei e di salvare posti di lavoro.

«Innanzitutto non sono stati usati solo fondi europei, ma anche denaro pubblico nazionale e regionale. Ma poi guardi il caso Natuzzi: 100 milioni di euro tra Regione Puglia, Regione Basilicata e governo a fronte di licenziamenti e contratti di solidarietà. Questo vuol dire che le multinazionali sono qui solo per far profitto e delocalizzare. È allora indispensabile che i finanziamenti pubblici a multinazionali si traducano in reddito sociale per i disoccupati, e che poi le fabbriche siano riattivate con un programma regionale. Insomma: un vero esproprio di fabbrica quando le realtà produttive vengono abbandonate».

“Esproprio proletario 2.0”: è la Regione a farsene carico, insieme con i lavoratori. In quali casi, nel dettaglio, si verificherebbe?

«Spesso si può fare, ci sono aziende pronte a regalare gli stabilimenti, penso a quanto successo con la Om Carrelli col Comune di Modugno. Ma potrei citare anche la Miroglio a Taranto, alcuni stabilimenti Natuzzi, la Bat a Lecce. Si tratta di riconvertire la produzione, acquisire gli stabilimenti, stabilendo il livello di produzione con la gestione dei lavoratori. Le privatizzazioni hanno fallito, la prospettiva è la gestione dei lavoratori con i comitati di operai, che decidono i passaggi successivi in un’ottica pubblica e utilizzando così le risorse europee».

Applicherebbe questo schema anche all’Ilva? Lì peraltro si scontrano due diritti: quello alla tutela della salute e quello al lavoro. Lei che soluzione propone?

«Il problema è che la proprietà è ancora in capo ai Riva, e lo Stato si è sostituito solo momentamenamente. La prima cosa è nazionalizzare: non si capisce perché bisogna pagare i disastri ambientali con i soldi pubblici e la proprietà deve restare privata».

In realtà sono stati sbloccati 1,2 miliardi di euro sequestrati ai Riva per l’applicazione dell’Autorizzazione integrata ambientale.

«È solo un modo per provare a ripulire la fabbrica per poi rivenderla depurata ad altri, magari a Marcegaglia o a qualche multinazionale indiana. È quello che è successo in passato con al- tre aziende pubbliche come Alitalia. Nel caso Ilva c’è poi da capire come sciogliere il nodo ambiente-lavoro: secondo noi occorre una riconversione dell’azienda, chiudendola, bloccando la produzione e poi riconvertendola. Con i forni accesi è molto difficile fare la riconversione. Tutti gli operai verrebbero così impegnati nell’opera di bonifica lunga anni, per poi individuare la produzione più utile».

Ma qual è lo scenario economico-produttivo che im- magina per la Puglia? Turismo? Manifatturiero di qualità? Grande industria?

«Negli ultimi due anni dalla Puglia sono andate via circa 50mila persone, perché le prospettive di lavoro sono ridottissime. Al di là dei successi del turismo - che andrebbe implementato anche con lo sviluppo di bel- lezze artistiche spesso abbandonate e con un “piano cultura” piu ampio - ci vuole ben altro: un piano per il lavoro contro la precarietà, il rilancio del piccolo commercio, la gestione pubblica e dei lavoratori delle fabbriche che licenziano. Secondo noi le grosse aziende inquinanti vanno riconvertite, mentre l’Enel di Cerano va chiusa del tutto. Ripartiamo poi dalla tradizione puglie- se dell’artigianato, da settori dimenticati e schiacciati dalla crisi».

Lei ha sempre sostenuto che bisognerebbe riaprire i 22 piccoli ospedali chiusi col Piano di rientro sanitario: non sarebbe uno sperpero di denaro a fronte di un tentativo di razionalizzazione dell’offerta che passa anche dall’apertura di case di cura e altri punti della salute territoriale?

«Siamo stati molto netti contro il piano di riordino. Vendola vinse contro Fitto proprio grazie alla sanità, poi si è trovato a gestire piani ben peggiori. Non solo sono stati chiusi 22 ospedali pubblici, ma non sono partite nemmeno le soluzioni alternative e le liste d’attesa sono aumentate. Torniamo sempre lì: si fa un favore inevitabile ed enorme ai privati. Noi siamo contro l’ottica di riduzione dei costi in cui si equipara il diritto alla salute a logiche di mercato e aziendalistiche: la salute è un diritto pubblico. Gli ospedali vanno riaperti, va distrutta la logica delle clientele, va tenuta fuori la poli- tica da ogni scelta e rilanciato il piano di assunzioni».

La sua visione “statalista” però comporta iniezioni massicce di denaro pubblico: da dove andrebbe pre- so?

«Qualcuno verrebbe naturalmente scontentato, a cominciare da coloro che sono rimasti contenti finora: le grosse imprese sovvenzionate pesantemente, le lobby della sanità privata, quelle legate alle strutture private della scuola. E poi via ai tagli ai costi della politica: nessun vitalizio, nessuna buonuscita, e una indennità da 1.500-2.000 euro».

Perché non ha raccolto la proposta di Riccardo Rossi di un patto tra tutte le forze “alternative” per essere elettoralmente più forti?

«Una proposta fatta pochi giorni prima della presentazione delle liste è pura propaganda. Io avevo lanciato l’appello già a marzo per un fronte largo su un programma comune rivoluziona- rio aperto a tutte forze di sinistra e di opposizione. Non però ai Cinque Stelle, ai quali non ci riteniamo affini: hanno, per esempio, un’impostazione razzista sui temi dell’immigrazione, spesso in concorrenza con Salvini».
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