Russiagate, è indagato/ Trump rischia come Nixon nell’America dell’odio

di Marco Gervasoni
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Venerdì 16 Giugno 2017, 00:11
Se il killer mancato del senatore repubblicano Scalise e di altre tre persone si fosse chiamato Abdullah gli americani non sarebbero così turbati. Sarebbe stato logico, sia pure di una logica orripilante. Invece si chiamava James. Ed era un fervente militante del Partito democratico, tendenza Sanders. 

La storia degli Usa è costellata da presidenti uccisi: da Lincoln a Kennedy (compreso il fratello Robert, candidato alle primarie nel 1968) passando per i meno noti Garfield e McKinley. Ma dal dopoguerra le motivazioni degli attentatori non erano state tanto politiche: JFK fu vittima della criminalità organizzata, Robert di un palestinese, quanto al feritore di Reagan, nel 1981, era uno psicopatico influenzato dalla visione del film Taxi driver. E se negli anni di Obama si era ripreso a sparare contro i politici, mai come l’altro ieri l’intento politico è stato così chiaro nella testa dell’attentatore. Uccidere un trumpista e poi, magari, fare secco pure Trump. In fondo, per organi autorevoli, il «Washington post» e il «New York Times », egli non è forse un castigo di Dio da cui cercare di liberarsi il prima possibile?

E non ha un grande successo a Broadway la pièce dove un Cesare molto somigliante al presidente viene scannato? E non faceva ridere l’attrice comica con la finta testa mozzata di Trump in mano? Intendiamoci, l’esaltazione del tirannicidio ha una lunga storia nella tradizione occidentale, dalla Grecia classica fino ai tentativi di uccidere Mussolini e Hitler. C’è un piccolo problema, però: Trump non è un tiranno. E’ stato eletto democraticamente. E’ legittimo. Per il momento rispetta la legge. E’ questo che colpisce i commentatori liberal, portando alcuni di loro a fare mea culpa: dopo molto tempo negli Usa è ritornata la delegittimazione estrema dell’avversario politico. Cioè la sua demonizzazione: egli è un mio nemico, è il Male, lo devo estirpare dalla terra, che m’importa se è stato eletto regolarmente e rispetta la Costituzione? Vi sono poi tanti modi per uccidere l’avversario, cioè il nemico. Quello di sparargli è il più rozzo. Uno più sofisticato passa attraverso la cosiddetta character assassination: e questo compito spetta ai media. Un altro modo, ancora più fine, consiste nell’utilizzare corpi dello stato e spezzoni di burocrazia, fino a certi giudici, per far apparire il nemico politico un delinquente.

E magari rimuoverlo con l’impeachment. Suona nuovo? Per gli Usa in parte sì: sono segni di Sud America al di sopra del Rio Bravo. Noi italiani però la demonizzazione dell’avversario politico la conosciamo da tempo. Shooting Silvio, Ho ammazzato Berlusconi, Chi ha ucciso Berlusconi: due film e un romanzo, apparsi tra il 2005 e il 2008, mentre nel 2009 un gruppo su Facebook chiamato «Uccidiamo Berlusconi» raccoglieva 14 mila «amici». Alla fine il Cav. una mazzata in testa, che poteva avere conseguenze gravi, la ricevette proprio nel periodo in cui uscivano questi simpatici prodotti. Di recente, sia pure non a quel livello, anche Renzi ha subito un trattamento del genere.

Demonizzare l’avversario, uno dei segni del franare della democrazia del compromesso che è stata alla base del mondo occidentale dal 1945 fino al crollo del Muro di Berlino. Significa che la classe politica ha perso totalmente autorevolezza e fiducia: il rappresentante del popolo vale meno di un cane, da prendere a calci nelle strade. In attesa dei capisaldi di un nuovo patto, i primi a fornire un esempio dovrebbero essere proprio quei politici che neppure si rendono conto di quanto il loro linguaggio inviti alla distruzione (fisica) dell’avversario. Al di qua e al di là dall’Atlantico, e anche dentro e fuori Montecitorio. Altrimenti, come il passato insegna, il Tiranno alla fine potrebbe arrivare 
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