Valutazione e risorse: ecco i nodi di Unisalento

di Guglielmo FORGES DAVANZATI
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Mercoledì 7 Ottobre 2015, 21:55 - Ultimo aggiornamento: 8 Ottobre, 10:52
Nando Boero, nel suo articolo di ieri su questo giornale, rileva un problema importante, e tuttavia, a mio avviso, non “il” problema, per la strategia di rilancio dell’Università del Salento, ovvero la imprescindibile necessità di promuovere le “eccellenze” delle quali questo Ateneo peraltro già fortunatamente dispone. Si tratta di un indirizzo condivisibile che, tuttavia, si imbatte in almeno due problemi di portata più ampia.



Problemi la cui soluzione non passa per i tecnicismi della valutazione della ricerca e che sono quindi intrinsecamente politici. Ci si riferisce, da un lato, alla criticità dei criteri di valutazione della ricerca scientifica così come elaborati dall’Agenzia Nazionale di Valutazione della Ricerca e, dall’altro, alle politiche per la formazione e la ricerca scientifica poste in essere negli ultimi anni.



1) L’Agenzia Nazionale di Valutazione della Ricerca (Anvur) – il cui costo di funzionamento è stimato a circa 10milioni l’anno – stabilisce un elenco di riviste sulle quali i ricercatori sono chiamati a pubblicare, definendole di fascia A sulla base di tecniche e metodologie alquanto discutibili. Fra queste, si può considerare il fatto che Anvur considera “eccellente” un ricercatore che pubblichi su riviste con elevata “reputazione”, del tutto indipendentemente dalla rilevanza dei contenuti della ricerca. La “reputazione” di una rivista è certificata dal suo “fattore di impatto” (impact factor), e la sua certificazione è effettuata sulla base di criteri individuati dall’istituto Thomas Reuters, azienda privata anglo-canadese. In altri termini, in Italia si valuta il contenitore (la rivista), non il contenuto, e il contenitore è buono se lo considera tale una delle più grandi imprese private su scala mondiale che opera nel settore dell’editoria. Va peraltro ricordato che l’impact factor è stato pensato come strumento per selezionare l’acquisto di riviste da parte delle biblioteche universitarie, e, anche sul piano strettamente tecnico, da più parti se ne sconsiglia l’uso ai fini della valutazione della ricerca scientifica: è recente la denuncia dell’Accademia dei Lincei contro l’uso di indicatori bibliometrici per la valutazione della ricerca, soprattutto nelle scienze umane e sociali. E va anche ricordato che negli Stati Uniti – le cui Università sono comunemente ritenute estremamente sensibili alla “cultura della valutazione” – l’impact factor non è quasi mai considerato un indicatore attendibile per valutare la qualità della produzione scientifica.

In Italia, i (pochi) reclutamenti nelle Università italiane e i (pochi) avanzamenti di carriera dei docenti universitari avvengono prevalentemente sulla base della qualità della ricerca scientifica dei candidati, come certificata dalla lista delle riviste elaborata da Anvur sulla base del loro impact factor. Il che genera un meccanismo potenzialmente vizioso. La gran parte delle riviste considerate eccellenti tende a pubblicare articoli il cui contenuto è in linea con la visione dominante, per una specifica disciplina e per un particolare tema affrontato. Ciò induce attitudini conformiste, soprattutto da parte delle giovani generazioni, impedendo di fatto la produzione di ricerche realmente innovative. E poiché l’attività didattica non è mai disgiunta dall’attività di ricerca, i contenuti dell’insegnamento tendono a diventare sempre più conformi alla visione dominante, rendendo gli studenti sempre meno informati su teorie alternative a quelle dominanti.

La valutazione della ricerca così come è fatta da Anvur va contrastata per i non pochi errori tecnici che l’Agenzia ha commesso e continua a commettere, va anche contrastata perché istituisce una modalità di valutazione di impronta dirigista, che non lascia alcuna possibilità di controllo da parte di chi (docenti e, per conseguenza, studenti) ne è destinatario, ma soprattutto perché – quantomeno nelle scienze sociali – è un’operazione niente affatto neutra. Si può infatti rilevare che, con queste modalità, la valutazione della ricerca indica ciò che i ricercatori dovrebbero fare e assume, dunque, una valenza normativa.



2) Il Presidente Renzi ha recentemente dichiarato che è inutile negare che, in Italia, esistono Università di serie A e Università di serie B. Si tratta di una dichiarazione che non fotografa l’attuale condizione del sistema universitario italiano (definito, non a caso, un sistema con “eccellenze diffuse”), ma che prefigura ciò che si intende fare, peraltro in controtendenza rispetto a quanto si fa in altri Paesi. L’Unione Europea è diffusamente percepita come un club dominato dalla Germania, la cui sola funzione è imporre stringenti vincoli al bilancio pubblico dei Paesi membri, attraverso l’attuazione di politiche di austerità. Occorre riconoscere che l’Unione Europea non è solo questa e, almeno per quanto attiene al settore della formazione, raccomanda il raggiungimento di obiettivi dai quali l’Italia va continuamente distanziandosi, in virtù delle opinabili scelte che gli ultimi Governi italiani hanno effettuato.



Fra questi: l’agenda di Lisbona prescrive di destinare il 3% del Pil agli investimenti in ricerca e innovazione, a fronte di un investimento italiano pari a circa l’1% e in costante riduzione; la commissione europea propone ai Paesi dell’eurozona di raggiungere una quota di laureati pari al 40%, a fronte di circa il 20% in Italia, anche in questo caso in costante riduzione.

Va poi osservato che il disegno di differenziazione delle sedi universitarie passa proprio attraverso i meccanismi di valutazione Anvur.



In questo scenario, la promozione delle eccellenze (anche, per esempio, attraendo studiosi “di chiara fama” in questa Università) sembra una misura efficace ma insufficiente. Per invertire la tendenza in atto occorrerebbe avviare una battaglia politica che coinvolga le famiglie, gli studenti e tutti i soggetti istituzionali a vario titolo interessati all’esistenza a Lecce di un’Università che possa definirsi tale (e che non venga declassata, nel giro di pochi anni, a superliceo), per evitare che questo territorio, oltre a essere privato di mezzi di trasporto efficienti, debba anche subire l’umiliazione di vedere la sua Università declassata. Il rischio è alto e i tempi sono molto ristretti.

Gugliemo Forges Davanzati