Il pericolo nei ghetti senza speranza

di Alessandro PERISSINOTTO
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Sabato 21 Novembre 2015, 14:37 - Ultimo aggiornamento: 19 Novembre, 22:50
Cos’è una banlieue? Una periferia, una città satellite. Definizioni corrette, ma prive di quelle sfumature che servono a spiegare come mai sia proprio nelle banlieues che andiamo a cercare il nemico di questa guerra mondiale.



Per capire meglio, ci serve il termine “banlieusard”: significa, ovviamente, abitante della periferia, ma non può essere pronunciato senza una sottile sfumatura peggiorativa. Anche l'elegante Neuilly sur Seine, a ovest di Parigi, è banlieue perché si trova al di là del boulevard Périférique, della tangenziale parigina, ma i banlieusards, gli svantaggiati, i pendolari sempre assonnati, i “cafoni”, vivono altrove, a Saint Denis, a Ivry e ovunque il sogno razionalista abbia costruito case come alveari giganteschi e impersonali. Sì, perché il primo elemento d’identità delle vere banlieues è il gigantismo e l’uniformità.



Se i ghetti di Los Angeles (tanto per citare una città che, come Parigi, ha vissuto la rivolta delle periferie) sembrano declinare con i codici della miseria e dell’abbandono le stesse forme dei quartieri ricchi, per le banlieue francesi gli urbanisti hanno elaborato un linguaggio architettonico distintivo: le vedi di lontano, le riconosci anche attraversandole col TGV ai 300 all’ora. Parallelepipedi di cemento, infiniti, tanto da “foderare” una collina e una valle, come l’Arianne di Nizza, o tanto da creare catene montuose artificiali là dove, come in Île-de-France, c’è solo pianura. Migliaia di balconi identici, che diventano deposito di tutto ciò che non sta in casa, migliaia di antenne paraboliche che diventano legame con tutto ciò che, di là dal mare, è ancora casa. La somiglianza con un alveare non è solo formale: chi ha costruito questi palazzi grandi come interi paesi aveva in mente, in maniera più o meno consapevole, proprio le api operaie; si nutriva dell’utopia secondo la quale migliaia e migliaia di individui, costretti a una convivenza forzata, omologati dalla forma stessa dei loro appartamenti tutti uguali, avrebbero collaborato tutti per il bene comune. E l’utopia si è mutata in distopia, il quartiere operaio in una bomba a orologeria.



Ma cos'è che rende tanto esplosive queste città satellite? In primo luogo il cambio di destinazione. Erano nate per ospitare le "masse operaie" francesi, ma, una volta trasformate nel punto di arrivo di tutti i movimenti migratori, le banlieue non hanno retto. Una cosa era accogliere migliaia e migliaia di individui che parlavano la stessa lingua, che condividevano lo stesso tipo di lavoro, che votavano per lo stesso partito, che in fabbrica, nei cantieri e lungo le strade pulsanti della metropoli avevano i loro spazi allargati di socializzazione, altra cosa è mettere fianco a fianco famiglie sradicate e spaesate, persone prive di strumenti linguistici e culturali, collettività diverse per abitudini e nazionalità.



Quelle cité, soffocanti come un vagone cuccette, erano state progettate per svuotarsi di giorno e a riempirsi la sera di persone sonnolente, per diventare dei dormitori e non dei teatri dove, con il chiaro o con il buio, va in scena sempre lo spettacolo dell'esclusione. Oggi, il giovane banlieusard non è più un pendolare, ma uno che dalla sua periferia esce il meno possibile, uno che ha smesso di cercare lavoro, uno che, al massimo, arriva fino al centro commerciale più vicino. Ma soprattutto, il giovane banlieusard è uno che non si sente francese, ma che definisce se stesso (e viene definito dagli altri) un immigrato di seconda generazione: non ancora cittadino della République, ma non più algerino, tunisino o senegalese. E così, le banlieue divengono la patria di quelle che il sociologo Benedict Anderson chiama “comunità immaginate”; non “immaginarie”, ma proprio “immaginate”, nel senso che certe comunità sono assolutamente reali, ma si basano su un’appartenenza costruita a tavolino, su legami creati a partire da una proiezione dei propri desideri.



I membri di una comunità immaginata rifiutano l’idea di essere un gruppo ristretto e pensano di essere l’avanguardia di un’immensa schiera di persone che la pensano come loro. Le religioni sono uno strumento estremamente potente per la creazione di comunità immaginate: ai giovani sradicati propongono codici condivisi, rituali e pratiche in cui riconoscersi, in cui inventare radici e miti di fondazione. E soprattutto, quando diventano aggressive come l'Islam radicale, le religioni creano i nemici contro cui battersi, perché senza l’odio e la guerra, quelle comunità di periferia, costruite sul nulla, si dissolverebbero presto. Lo Stato Islamico è un perfetto esempio di "Comunità immaginata", ma quando ciò che è immaginato trova una solida base territoriale, nella Siria in rivolta o nella banlieue inaccessibile alle forze dell'ordine, il suo pericolo si fa più che mai reale.



Per fronteggiarlo, lo Stato francese (che in campo sociale non ha certo bisogno degli insegnamenti del nostro premier) sta portando avanti da qualche anno la politica della "mescolanza sociale": non più quartieri per emigrati, non più schegge d'Africa cadute sul suolo europeo, ma una distribuzione quasi uniforme dei nuovi cittadini sul territorio. Certo, oggi è facile dire che bisognava pensarci prima, è facile dire che le periferie operaie non andavano utilizzate per uno scopo diverso da quello per il quale erano state progettate, ma la verità è che, da qualche decennio, stiamo vivendo una continua emergenza, nella quale i nostri progetti di società, i nostri piani urbanistici, i nostri sogni di perfezione vengono continuamente sconvolti dall'imprevedibilità della Storia, dall'incalzare del cambiamento, ma anche dall'ostinata illusione che un mare o un confine possano tenere fuori dalla nostra porta ogni problema.